Il problema di Dio nel pensiero di Freud
di Mauro
Fornaro
Mauro Fornaro (Aosta, 1951), laureato in filosofia
a Milano nel 1973, psicologo e psicoterapeuta di orientamento psicoanalitico,
è stato incaricato di Storia della psicologia presso l'Università Cattolica
di Milano e dal 2001 ordinario di Storia delle scienze psicologiche presso
l'Università di Chieti-Pescara, indi ordinario di Psicologia dinamica e
presidente del Corso di laurea magistrale in Organizzazione e relazioni
sociali.
Si è occupato in prevalenza di storia ed
epistemologia della psicologia e della psicoanalisi, oltre che dei rapporti tra
psicologia ed etica, psicoterapia e ricerca empirica.
Tra i suoi volumi: Scuole di psicoanalisi. Ricerca
storico-epistemologica sul pensiero di Hartmann, Klein e Lacan, 1988;
Psicoanalisi tra scienza e mistica. L'opera di Wilfred Bion, 1990; Il soggetto
mancato. La psicologia del Sé di Heinz Kohut, 1996; Aggressività. I classici
nella tradizione della psicologia sperimentale, della psicologia clinica,
dell'etologia, 2004; (a cura di) Bullismo tra globalizzazione e realtà locale,
2012. Ha codiretto la sezione di Psicologia dell'Enciclopedia filosofica (nuova
edizione, 2006) ed è collaboratore fisso della rivista "Psicoterapia e
Scienze Umane".
Tematiche: Filosofia - problemi morali
Inizio citando tre brani da L’avvenire di
un’illusione scritta da Freud nel 1927, che ci porranno subito in medias res.
In questo lavoro Freud pensa soprattutto alla religione cristiana, mentre nei
successivi tre saggi su L’uomo Mosè e la religione monoteistica, del 1934-38,
scrive, come si capisce dal titolo, sulla religione ebraica, che era la
religione dei suoi avi. Il primo brano riguarda la genesi della religione:
· “Il motivo che la psicoanalisi adduce per il
formarsi della religione è uno solo: il contributo infantile alla sua
motivazione manifesta […]. Il motivo del desiderio ardente del padre coincide
pertanto col bisogno di protezione contro le conseguenze della debolezza umana;
la difesa contro l’insufficienza infantile lascia il suo segno caratteristico
[…] sulla formazione della religione” (L’avvenire di un’illusione, ediz.
economica Boringhieri, 2009, pp. 63-64). In sostanza la religione, quanto alla
sua genesi intende soddisfare un infantile bisogno di protezione. Dunque
“infantile” e “bisogno di protezione” sono due termini chiave su cui dovremo
tornare. Vediamo ora come Freud qualifica le idee religiose.
· “Queste [cioè le idee religiose] che si
presentano come dogmi, non sono precipitati dell’esperienza o risultati finali
del pensiero, sono illusioni […]. Caratteristico dell’illusione è di derivare
dai desideri umani; sotto questo profilo essa si avvicina alle idee deliranti
note alla psichiatria” (ibi, p. 72). “Illusione” e “idee deliranti” sono qui i
termini chiave. Vediamo infine che cosa Freud, da ateo, prospetta al di là
della religione.
· Premesso che per Freud due diverse concezioni
del mondo si fronteggiano, l’una che considera l’uomo eterno minore, bisognoso
di un padre che lo indirizzi e lo domini; l’altra che ha fiducia nella ragione
e nelle autonome capacità dell’uomo, “vale la pena di tentare un’educazione
irreligiosa […] L’uomo non può rimanere eternamente bambino, prima o poi deve
avventurarsi nella ‘vita ostile’. Questa può essere chiamata la ‘educazione
alla realtà’ ” (ibi, pp. 92-93).
Abbiamo dunque sei paletti che segnalano
l’itinerario freudiano sulla religione (bisogno di protezione-infantile;
illusione-delirio; ragione-educazione alla realtà). Ma prima di illustrare
questo percorso più in dettaglio diamo uno sguardo complessivo all’impostazione
freudiana. Non si può non avere l’impressione di una critica conturbante: ci
prende per così dire alle spalle, lavorando sul modo dubbio, cioè infantile con
cui nascerebbe la credenza religiosa; lavora su ciò che i teologi chiamano la
fides qua creditur, il modo con cui si crede. La critica freudiana tocca invece
solo tangenzialmente la questione della fides quae creditur, cioè ciò che è
creduto, l’oggetto della fede. In questa sua impostazione Freud è conforme alla
modernità: dopo Kant e la sua confutazione delle prove razionali dell’esistenza
di Dio, non ci si preoccupa più tanto di dimostrare che Dio esiste o non
esiste, quanto piuttosto con Marx, Feuerbach e Nietzsche, Freud insiste sulla
genesi sospetta delle credenze religiose.
Nella pars construens, l’alternativa alla
religione che Freud propone è ispirata a un ateismo che reputo degno di
rispetto. Non è certo l’ateismo crapulone dell’edonista: “Dio non c’è, carpe
diem”, in base per altro al pansessualismo di cui è stato spesso accusato
Freud. Non è neppure l’ateismo che terrorizzava Dostoevskij, quando mette in
bocca a Ivan dei Fratelli Karamazov: “Se Dio non c’è, tutto è consentito”. Ivan
è il filosofo che con questa teoria giustifica il cinico comportamento
dell’anarchico Stavrogin nei Demoni, che non si fa problema a stuprare una
bambina, che poi si suiciderà: appunto, se Dio non c’è… Il male morale per
Dostoevskij è la conseguenza inevitabile della morte di Dio, dell’ateismo. Al
contrario per Freud la ragione è sufficiente per costruire una moralità, senza
che vi sia bisogno di Dio. La sua non è però la ragione trionfante di certo
razionalismo illuministico, ma il primo compito della ragione per Freud è
quello di porci di fronte alla nuda realtà, togliendoci ogni velo consolatorio.
L’educazione alla realtà, di cui nel brano che ho citato, significa prendere
coscienza della nostra impotenza di fronte al male, alle catastrofi naturali o
prodotte da noi umani come le guerre, e porci di fronte al nostro destino
mortale. La filosofia con cui l’ateo Freud affronta la vita e il suo dramma si
condensa dunque nella massima da lui stesso riproposta Logos kai anagke, cioè
affrontare con la ragione, con stoico coraggio le dure necessità della vita,
senza le fasulle consolazioni della religione. Al più la scienza può migliorare
un po’ le condizioni della nostra esistenza, e Freud intende lavorare in questa
direzione, ma nulla può di fronte ai radicali limiti esistenziali: la
cattiveria umana, la sofferenza, la morte. Il credente è seriamente provocato
da Freud, ma ad un tempo non può non togliere tanto di cappello alla dignità di
questo ateo.
Che dire della pars destruens dell’approccio
freudiano alla religione? L’enorme influenza del freudismo in tutta la cultura
del ‘900 e dunque una certa autorevolezza anche su questi temi, non toglie che
Freud abbia sconfinato oltre il suo campo specifico di ricerche, che è quello
della psicopatologia. Sorgono allora una serie di questioni. Che posto ha nel
contesto dell’opera freudiana la sua concezione della religione? In particolare
l’ateismo freudiano deriva necessariamente dal nocciolo dell’impianto
psicoanalitico o è solo un possibile sviluppo? Ma preliminarmente: qual è “il
nocciolo” della psicoanalisi freudiana? E ancora: che valore scientifico ha al
giorno d’oggi?
Partiamo dall’ultima questione: è da osservare che
oggi non ci si accanisce più tra freudiani e anti-freudiani, a differenza degli
anni ’50 quando, dopo il marxismo, la psicoanalisi era forse il pericolo più
temuto nel mondo cattolico, accusata com’era di materialismo e di
pansessualismo. Se il rapporto con la psicoanalisi è diventato meno scottante
da qualche decennio nel mondo degli intellettuali, cattolici o laici che siano,
è anche perché sono da tempo in corso revisioni tra gli stessi psicoanalisti di
tradizione freudiana su punti essenziali del freudismo, come il carattere
conflittuale o meno della psiche, il carattere creativo delle produzioni
culturali umane, o semplicemente reattivo a pulsioni. La critica freudiana alla
religione può dunque essere attaccata dal lato delle premesse psicologiche da
cui parte, come già fu fatto da suoi allievi a partire da Carl Gustav Jung; ma
non è questa la via che intendo ora intraprendere, volendo invece seguire il
corso dell’argomentazione freudiana.
Veniamo allora al nocciolo del freudismo classico.
La psicoanalisi è essenzialmente sia un metodo di indagine e di cura della
psiche, sia un insieme di dottrine riguardanti il funzionamento psichico;
qualche discepolo infatuato ha voluto farne una visione generale del mondo e
dell’uomo, ma è sbagliato. Il metodo a mio avviso è la parte ad oggi più vitale
ed è relativamente indipendente dalla dottrina psicologica freudiana. Quanto ai
punti chiave della dottrina freudiana, essi si ritrovano nelle origini, quando
Freud cercava di districarsi dalla psichiatria del tempo. Nell’ultima decade
dell’ 800 si formarono quattro pilastri fondativi del freudismo:
· esistono pensieri, desideri, e più tardi Freud
parla di “pulsioni”, che sono inconsci e che motivano il comportamento di ciascuno
a nostra insaputa;
· questi pensieri, queste spinte inconsce,
inoltre, sono tali da produrre disturbi, sia a livello psichico, sia somatico.
Questi due pilastri erano noti tra psichiatri e
neurologi al tempo. Freud è invece originale rispetto ai contemporanei per due
ulteriori tesi:
· il carattere conflittuale della psiche, cioè
quelle spinte, poiché non sempre sono accettabili, vanno “rimosse”, così che si
crea un ricorrente conflitto tra certe nostre pulsioni e le esigenze morali che
abbiamo interiorizzato;
· il carattere simbolizzante della psiche, vale a
dire questi pensieri, desideri o pulsioni respinti ritornano alla superficie
(nulla si crea e nulla si distrugge, in base a un presupposto fisicalista
abbracciato da Freud); ma vi ritornano sotto forma simbolica, cioè mascherata,
spesso metaforica, come accade nei sintomi psicopatologici e poi anche in
fenomeni normali come i sogni e i lapsus. Dunque l’interpretazione appare come
un cammino inverso rispetto alla generazione del sintomo, del sogno ecc.
Ebbene, tutti questi pilastri concorrono in Freud
a spiegare i molteplici aspetti della vita psichica e nella fattispecie i vari
aspetti della religione di cui si occupa. Il carattere conflittuale e
simbolizzante della psiche interverrà specie a spiegare la religione come
nevrosi, ma quando Freud paragona la religione a una nevrosi si riferisce per
lo più ad aspetti che ora non prendo in considerazione, relativi alla pratica
religiosa per le sue dimensioni di ritualità di tipo ossessivo, per suo insistere
sul tema della colpa e del peccato. Soffermiamoci piuttosto sulla tesi
freudiana centrale a riguardo della religione, cioè l’idea di illusione, la
religione come illusione: chiediamoci in che rapporto l’illusione stia coi
concetti freudiani portanti che ho testé ricordato. Ebbene la nozione di
desiderio o di bisogno, qui trascuro le differenze tra bisogno e desiderio, è
il ponte tra la psiche e l’illusione. Che cos’è un’illusione? L’illusione è
l’idea di un qualcosa che deve esistere, o di un evento che deve realizzarsi,
non perché ne abbiamo le ragionevoli prove, ma solo perché lo “desideriamo”.
Scrive Freud : “Diciamo dunque che una credenza è un’illusione, qualora nella
sua motivazione prevalga l’appagamento di desiderio, e prescindiamo perciò dal
suo rapporto con la realtà” (L’avvenire di un’illusione, p. 72). Freud fa
l’esempio della ragazza popolana che è convinta di poter sposare il principe:
non è impossibile, ma altamente improbabile, specie ai tempi di Freud, e
diciamo anche comunemente che quella ragazza si illude. Nell’illusione insomma
non ci rendiamo conto, ed ecco l’aspetto inconscio, che quella cosa che
crediamo vera, in verità è solo frutto di un desiderio: l’occhio critico dello
psicoanalista freudiano vede in colui che si illude la realizzazione di un
inconsapevole autoinganno.
Vediamo allora meglio in che senso la nozione di
illusione si applica alla religione per Freud, partendo anzitutto da come il
singolo nel corso dello sviluppo può accostarsi all’idea di Dio. Il bambino
piccolo ha un bisogno indubbio di protezione, di rassicurazione e trova la
risposta, normalmente, nei genitori – e si noti che per tutta l’infanzia il
bimbo non può capire l’idea di Dio. Ma quando il bambino è cresciuto, si rende
conto che i genitori non sono quei padri eterni che immaginava, hanno evidenti
limiti; ecco allora facilitato l’accesso all’idea di Dio, come quel Padre con
la P maiuscola che tutto può. Grosso modo, così le cose sono andate secondo
Freud pure nella storia dell’umanità: “Il primitivo ha bisogno di un dio come
creatore del mondo, capo supremo della tribù, protettore personale” (L’uomo
Mosè e la religione monoteistica, in Opere di Sigmund Freud, Edizione
Boringhieri, vol. 11, p. 445). Sotto l’aspetto della credenza illusoria di un
Dio che ci rassicura e ci protegge Freud colpisce non solo le religioni
primitive, ma pure le grandi religioni monoteistiche a cui pensa: Dio è
invocato a protezione di fronte al male, alle sofferenze psichiche e fisiche.
Per i cristiani in particolare è significativo il fatto che Dio sia chiamato
Padre proprio nella preghiera principe del cristianesimo; inoltre noi cattolici
assieme agli ortodossi abbiamo valorizzato nel corso della storia del
cristianesimo il ruolo protettivo della figura materna, la Madonna, madre che
intercede. Infine, non è forse vero che un po’ tutte le religioni presenti al
mondo vogliono rassicurare di fronte all’angoscia più seria nella vita, cioè
l’angoscia per il fatto che si muore, offrendo qualche tipo di speranza al di
là della morte? E per i cristiani, se non ci fosse la resurrezione dei morti in
virtù dell’onnipotenza di Dio Padre, sarebbe vana la fede in Cristo, come
scrive Paolo apostolo a più riprese.
Freud direbbe appunto che queste credenze sono
tutte illusioni, pie illusioni, per non affrontare la dura realtà della nostra
finitezza; inoltre le illusioni sarebbero simili a dei deliri, come visto nel
passo che ho letto all’inizio. Ahimé, qui la questione si fa pesante. Finché si
dice che siamo illusi, pazienza, ma dire che siamo deliranti, cioè un po’
matti, spiace maggiormente. Infatti il delirio è espressione tipica della
psicosi, malattia grave: lo psicotico delirante, al pari dell’uomo religioso,
crede che qualcosa ci sia, ma non sa che quel qualcosa è solo espressione del
suo desiderio; cioè lo psicotico ha perso il senso della realtà. Che differenza
allora tra il credente e quel poveretto che nell’Ospedale psichiatrico d’altri
tempi, come mi raccontò un amico psichiatra, fu sorpreso in reparto mentre
stava assorto in ginocchio? “Ma che fai?”, gli chiese lo psichiatra. E l’altro
tutto sorpreso: “Non vedi che sto parlando con la Madonna”. La differenza della
credenza religiosa rispetto al delirio è che nella prima vi è consenso sociale,
cioè non c’è “contraddizione con la realtà” qual è percepita o creduta da un
gruppo, cosa che manca invece nel caso del povero psicotico. Anche Freud
riconosce in sostanza questa differenza: l’illusione religiosa, scrive, “si
avvicina alle idee deliranti note alla psichiatria, ma a differenza del delirio
l’illusione non necessariamente è un’idea falsa, cioè irrealizzabile o in
contraddizione con la realtà” (L’avvenire di un’illusione, p. 72). Inoltre a
differenza del delirio, aggiungo io, dalla credenza religiosa deriva (o
dovrebbe derivare) una prassi non contraddittoria con le esigenze della vita
associata, anzi una prassi “pro-sociale” come si dice oggi, una prassi cioè che
sostiene il gruppo e gli individui, mentre il povero psicotico è chiuso nel suo
mondo privato.
È ora venuto il momento di fare a nostra volta una
critica alla critica freudiana alla religione di essere un’illusione simile al
delirio, nata dal bisogno infantile di protezione. Ebbene, una critica genetica
di questo tipo è decisiva a favore dell’ateismo? No, la critica genetica non
dimostra che Dio non esiste, ma come dicevo, mostra solo come può nascere
l’idea di Dio. Fortunatamente se ne rende conto anche Freud, che non fa
l’errore genetista di taluni suoi discepoli, cioè l’errore di ritenere che la
critica al modo discutibile con cui una convinzione è sorta, significhi ipso
facto la condanna, l’erroneità di quella convinzione. Scrive infatti che “le
dottrine religiose sono tutte illusioni indimostrabili. [Ma] così come sono
indimostrabili, sono anche inconfutabili” (ibi, 73). Vale a dire, non si può
dimostrare che sono vere, ma neppure si può dimostrare che sono false.
Parimenti neppure è dimostrabile la non esistenza di Dio, cioè non si può
costringere a fil di logica nessuno a non credere, ad esser ateo. Fin qui
Freud. Di più il credente – questo lo aggiungo io – può rovesciare il banco: a
fil di logica, una volta fatta l’opzione di fede religiosa, può dire che
proprio le tribolazioni della vita sono la via di cui si è servito Domine Iddio
per portare alla conversione. Ricordate l’Innominato di manzoniana memoria che
preso dal rimorso per le sue malefatte, spaventato dalla vecchiaia incipiente e
dalla paura della morte, nella famosa notte si converte; ricordiamo anche la
biografia di tanti Santi, che si sono convertiti al fondo di qualche
tribolazione.
Per dimostrare la non esistenza di Dio, semmai
fosse possibile, ci vorrebbero dunque argomentazioni che entrino nel merito
della credenza e non solo nella sua genesi. Freud fa solo qualche cenno in
questo senso supponendo una teoria della conoscenza di tipo scientistico e
positivistico, secondo cui è vero solo ciò che è provato con i fatti o con un
ragionamento ineccepibile che parta dai fatti. Forzando un po’ Freud, perché
ripeto i suoi sono solo cenni, Freud non reputa inappropriato imboccare la via
dell‘intellego ut credam (capisco per credere), ma per poi dire che per via di
esperienza e di ragionamenti si può solo concludere “non intellego”, cioè non
capisco, non ci sono le prove. (Freud evidentemente non attribuisce valore alle
cinque vie di San Tommaso per dimostrare l’esistenza di Dio).
In definitiva Freud stesso viene a concludere che
non è ragionevole credere, anzi non è dignitoso per l’uomo adulto, ma non che
sia assurdo, cioè contraddittorio alla luce della ragione. Controprova è che il
rapporto col credente non è affatto chiuso: lo mostra il dialogo sincero e
accanito col pastore e psicoanalista Otto Pfister, che resterà sia
psicoanalista sia religioso, ribattendo a Freud con il volumetto L’illusione di
un avvenire. (Se Pfister fosse stato un povero psicotico, non avrebbe avuto
senso mettersi a ragionare con lui). Del resto la scissione da Freud da parte
dei suoi principali discepoli non avvennero su temi di carattere religioso o
filosofico, bensì su temi riguardanti la teoria psicologica, come la libido e
il simbolismo (nel caso di Jung), il ruolo dell’io e dell’aggressività (nel
caso di Adler), ecc. Anzi ci sono poi stati nella successiva storia della
psicoanalisi anche cattolici praticanti che sono saliti ai vertici delle istituzioni
psicoanalitiche come Leo Bartemeier divenuto presidente dell’American
Psychoanalytic Association e poi della stessa International Psychoanalytic
Association (dal ’49 al 51), inoltre altri nomi di rilievo come Gregory
Zilboorg, russo trasferitosi negli USA, e in Italia il compianto Leonardo
Ancona.
La critica freudiana alla religione, dunque,
quanto alla genesi dell’idea di Dio, è coerente con la coppia
desiderio-illusione che a sua volta si aggancia ai primi pilastri della
psicologia freudiana che ho menzionato; dall’altra parte, quanto all’obiettiva
attestazione dell’esistenza di Dio, si limita a dire che non ci sono le prove
per poter credere. Vediamo allora una possibile risposta costruttiva e non solo
difensiva, da parte del credente. Anzitutto, visto che la critica freudiana non
è decisiva al fine di negare l’esistenza di Dio, ma solo corrosiva, possiamo
forse tornare allo status quo, come se nulla fosse accaduto? Il credente dopo
Freud, così come dopo Marx e Nietzsche, non può fare la politica del struzzo,
ma a mio avviso occorre lasciarsi interrogare da questi sviluppi della
modernità. Non alludo solo al fatto pratico che la psicoanalisi, o forme di
psicoterapia da essa derivate, possano diventare di supporto alla pastorale
nell’aiutare soggetti in difficoltà, fino a vagliare, se il caso, le
motivazioni meno chiare che spingono una persona alla vita consacrata: se lo si
fosse fatto in passato, forse si sarebbe limitato lo scandalo dei preti
pedofili. Di più alludo al fatto radicale di lasciarsi interrogare riguardo
alla plausibilità della fede religiosa stessa. Ebbene, la psicoanalisi può
esercitare una critica salutare, proprio su quelle forme di religiosità
costruite a mera compensazione di umane debolezze, laddove Dio, la Madonna, i
Santi sono vissuti come meri soccorritori nei bisogni terra terra, anche se
soggettivamente importanti. Così ci si rivolge alla religione di fronte a una
malattia ad oggi inguaribile, si accende la candela per l’esame, per dire di un
caso popolare; si sono fatte anche processioni contro la siccità, in passato
contro le pestilenze, per fermare lo scorrere della lava. In questi casi si
conferisce a Dio il ruolo di un “tappabuchi”, di cui prima o poi faremo a meno,
non appena si riuscirà con lo sviluppo della scienza o con un’accresciuta
maturità psicologica a risolvere i nostri problemi senza far intervenire Dio…
Ecco l’indovinatissima espressione di Bonhoeffer:
“Dio tappabuchi”. Cito il pastore e teologo luterano Dietrich Bonhoeffer,
perché era figlio di Karl, un importante psichiatra tedesco, e certo doveva
conoscere Freud. Il problema di Bonhoeffer è appunto che ne è di Dio e della
religione dopo l’avvento della modernità. Anzitutto per lui non è più
sostenibile la fede in un Dio tappabuchi. Al Dio tappabuchi oppone il Dio
dell’essere- per-gli altri, cioè il Dio che avvia e con cui si avvia un
progetto di vita ispirato appunto all’essere-per-gli altri. La religione e la
fede non sono tanto o soltanto questione di credenza intellettuale, ma senza le
opere o meglio senza un progetto di vita, fede e ritualità religiosa sono ben
poca cosa. E il progetto di vita nel caso di Bonhoeffer era ispirato, nella
sequela di Cristo, all’itinerario che passa per il binomio di croce e
resurrezione. Nel ’39 Bonhoeffer poteva starsene lontano dalla Germania
nazista, ma ci torna per farsi parte attiva della chiesa confessante che si
opponeva al nazismo, prende la croce con i confratelli per un progetto che
malgré lui lo porta in piena coerenza di vita in carcere e alla morte. All’intellego
ut credam, cui resta difficile aderire nella modernità dopo che Kant ha
smontato le prove per l’esistenza di Dio, direi che Bonhoeffer sostituisce
l’amo ut credam.
Mi spiego meglio cercando di rispondere a Freud
con Bonhoeffer, che prendo come caso esemplare tra altri citabili, un campione
della fede, se vogliamo, da confrontare con un campione dell’ateismo: nel caso
di un Bonhoeffer non può essere questione di infantilismo, perché chi è
infantile non progetta la propria vita nel modo di Bonhoeffer, un modo che è
decisamente al di là del Dio del mero bisogno di protezione; ma neppure è
questione di mera credenza intellettuale, in un Dio razionalmente dimostrato.
Del resto alzi la mano chi ha creduto in Dio sulla base di una mera
dimostrazione intellettuale della sua esistenza. Piuttosto nella fede-progetto
si realizza un circolo virtuoso fatto di una fede che induce alla speranza e
alla carità e di una carità che vissuta nella speranza porta a corroborare la
fede stessa. Nella carità, “guardateli dai loro frutti”, sta il segno della
fede in Cristo in quanto progetto di vita. È sul lato dunque della prassi, dei
frutti che il credente porta in nome della propria fede che si misura il valore
e ad un tempo la credibilità della fede: guardateli dalle opere, almeno quelle
buone (e sappiamo quanti se dicenti cristiani non sono stati esemplari). Ma su
questa strada Freud resta indietro di parecchie miglia, non comprendendo
l’amore, la caritas nel senso cristiano.