Sub tuum praesídium confúgimus,
sancta Dei Génetrix;

nostras deprecatiónes ne despícias in necessitátibus;
sed a perículis cunctis líbera nos semper,
Virgo gloriósa et benedícta.

sabato 29 settembre 2012

Preghiera agli Angeli del Signore


29 settembre festa dei Ss. Michele, Gabriele, Raffaele Arcangeli; 2 ottobre festa dei Ss. Angeli custodi. 

Santi Angeli e Arcangeli del Paradiso, Santi Angeli custodi, San Michele Arcangelo, San Gabriele Arcangelo, San Raffaele Arcangelo, Angeli tutti di Dio Creatore, Autore della vita, Signore nostro Gesù Cristo, con il Padre nell’unità dello Spirito Santo, Dio che è Amore, misericordioso e compassionevole, Angeli buoni e potenti, io [ dire il proprio nome ] Vi amo, Vi lodo, Vi onoro, Vi venero, V’invoco; mi rivolgo a Voi, sapendo che mi ascoltate e mi conoscete, ma soprattutto mi amate come Vostro fratello! Anche se non lo merito, Vi ringrazio con tutto il cuore. Vi supplico di venire in mio aiuto, di me, che sono un peccatore, di benedirmi e proteggermi. Siatemi sempre accanto, liberandomi dai pericoli e dandomi la forza contro i nemici e contro il demonio. Assistetemi con la Vostra potenza, la potenza che Vi viene da Dio, nostro Signore e Creatore. Angeli Santi non dimenticatemi e non abbandonatemi, ma siate sempre solleciti nei miei riguardi, conducendomi sul retto Sentiero secondo la Volontà di Dio, la quale è amore e misericordia: insegnatemi tutte le virtù, ma soprattutto l’umiltà, la castità, la Carità e l’obbedienza a Dio, nella vera Fede e nella Speranza. Siate sempre con me, in ogni istante, e se il Signore lo vuole manifestatevi, fatevi sentire. Che l’Amore ci unisca, così da essere sempre insieme operando per la gloria di Dio e la salvezza delle anime! Perdonate i miei molti e gravi peccati e la mia miseria, sopportatemi per quello che sono. Amatemi!... Vi amo con tutto il cuore e so che voi mi amate, con la mia più grande e riconoscente gratitudine. Amen. 

giovedì 27 settembre 2012

Il secolarismo è contro il Vangelo


Nel secolo ventesimo e anche in questo inizio di ventunesimo, il secolarismo è andato imponendosi con prepotenza in ogni ambito della società umana e purtroppo anche nella Chiesa; per secolarismo si intende quella corrente di pensiero, anzi quella convinzione radicata, che l’umanità deve lavorare esclusivamente per l’edificazione della città terrena, quindi del suo bene etico e materiale nell’ordine temporale, cioè nel secolo presente, quello dell’uomo e non in quello futuro, nel secolo che appartiene all’eternità, inteso come quello di Dio. La città terrena è contrapposta alla città di Dio e nessuno crede più in una eternità che ci attende, soltanto il mondo ha le sue prerogative e ogni cosa che in esso è considerato bene per l’uomo, non si crede più alla salvezza eterna della propria anima e si svuota il Cristianesimo del suo autentico significato, quello salvifico: la Chiesa diventa, nella visione postmoderna, semplicemente la crocerossina del mondo con un ruolo umanitario e soccorritivo in senso materiale, e per quanto concerne i suoi valori spirituali a favore della vita umana. Se si domanda oggi a un cristiano se desidera il martirio per essere in Paradiso con Cristo, probabilmente la risposta consisterà in una risata beffarda o in un atteggiamento di perplessità e sconcerto: la gente vuole la vita e nessuno vuole morire per conquistare qualcosa che considera una mera fantasticheria, strano se si pensa che i primi cristiani andavano volentieri al martirio e morivano in modo consenziente e cruento per testimoniare la loro fede in Cristo, ma oggi i tempi sono cambiati e il cristiano è soltanto un soggetto debosciato e pantofolaio, che nelle sofferenze cerca sollievo e rimedio, desiderando esclusivamente di allungarsi la vita, perché crede che sia l’unica cosa che conta, altro che Paradiso! Nel secolarismo c’è una forte componente neopagana, la fede nell’al di là è messa da parte e si prega il Signore in modo sbagliato, cioè per ottenere favori di carattere materiale, quindi anche il materialismo è una componente del secolarismo e quando lo si definisce come neopaganesimo, non si fa altro che affermare il totale disinteresse delle persone sopraffatte da questa tendenza intramondana, nei confronti delle cose di Dio, innanzitutto dei valori spirituali e morali, delle virtù di cui si fa menzione nel Vangelo; come nel paganesimo dei tempi antichi, sono gli idoli dell’oggi ad essere adorati, le icone sacre del potere, del denaro, dell’apparire, del piacere e del benessere, etc. Occorre sapere che della città terrena non resterà che un cumulo di macerie e di ossame di morti, non sussisterà nemmeno il ricordo di ciò che è stato nel passato e a quelli del futuro ovviamente non gliene importerà un bel niente, tranne che di edificare la loro città terrena, destinata al medesimo sfacelo: comprendere quanto sia più sicura la città di Dio e quanto sia più importante per un’anima entrare a farne parte, purtroppo è qualcosa che pochi sentono veramente, oggi forse nessuno di quelli che vivono nel nostro assurdo limbo dell’ignoranza, vogliono vedere quello che davvero li attende, perché nessuno che abbia un minimo di senno desidera morire per una “fantasticheria” mistica. La città di Dio è il mondo delle favole e la città terrena quello della realtà… lo scopriremo solamente morendo, ed è ovvio che non lo può evitare nessuno, sarebbe più saggio rifletterci prima, che andare incontro all’ignoto impreparati; oggi quasi tutti muoiono come animali senza comprendonio, lo si desume dal grande business delle agenzie funebri, ed è una tremenda tragedia contemporanea che riguarda anche coloro che si dichiarano credenti, affermando con superficialità: qualcosa ci sarà! E poi si tira semplicemente a campare… Ma vale la pena vivere nella mediocrità?  

giovedì 20 settembre 2012

La simonia, comprare Dio per denaro


La Grazia della salvezza di Dio è gratuita e offerta ad ogni persona umana senza nessuna modalità mercantile, senza nessun interesse di parte o secondo fine nel Donatore di tale grande grazia, senza che il bene possa essere commercializzato per un guadagno subdolo e losco: la vita ci è regalata, è un dono gratuito da parte del Signore e noi per riceverla non abbiamo dovuto dare niente in cambio, è un dono della sua immensa bontà di Padre. Nel libro degli Atti degli Apostoli c’è un episodio in cui Pietro si sente chiedere da un certo Simone, l’acquisto dello Spirito Santo in cambio di denaro, poiché questa persona ha riscontrato nell’Apostolo di Cristo dei poteri particolari ed egli se ne vuole appropriare per averne dei vantaggi di carattere personale; Pietro risponde di no, che è assurdo pensare di comprare per denaro il dono dello Spirito, che la Grazia di Dio è donata gratuitamente a tutti e volerla comprare è un atto di blasfemia, un grave peccato contro l’amore gratuito del Signore… Gesù si è sacrificato sulla Croce per amore, e l’amore presuppone l’oblazione, un atto puramente gratuito e altruista, non si può sporcare la sublime Carità di Dio con del vile denaro, che non a torto è stato definito da qualcuno come lo sterco del diavolo! Questo comportamento si è verificato talvolta nella storia della Chiesa, il clero ecclesiastico ha venduto ai fedeli per denaro le cose di Dio, come indulgenze e remissione di peccati, la stessa salvezza eterna, si è fatto credere alla gente di certe epoche che il Paradiso lo si può comprare con i quattrini; dall’episodio degli Atti sopracitato, tale atteggiamento moralmente illecito è stato definito da chi lo ha contrastato e condannato pubblicamente, come “peccato di simonia”, o anche uno tra i peccati più gravi contro lo Spirito Santo. Purtroppo la simonia esiste ancora oggi nella Chiesa in certi suoi ambiti, quindi i soldi continuano ad avere il loro fascino perverso assieme al potere mondano e temporale che essi conferiscono a chi li possiede; voglio ricordare nell’anonimato una certa compagine radiofonica cattolica nata in Italia, che ha fatto la sua fortuna questuando denaro al suo sempre crescente numero di ascoltatori, con un forte successo in ascesa, divenendo il network radiofonico più potente del mondo, nonché il più mieloso: chi porta soldi nelle casse della Chiesa diventa potente e influente come un cardinale, guadagna grande autorevolezza, questa è l’amara realtà; i poveracci e gli ultimi non sono più il vero tesoro della Chiesa… come disse agli invasori barbari che volevano depredare la città eterna, un grande Pontefice romano dei primi secoli, successore di Pietro, egli disse che i poveri sono il tesoro della Chiesa, la sua vera ricchezza: nella storia non è stato sempre così e purtroppo non lo è nemmeno attualmente. Povertà, castità e obbedienza sono i voti di un consacrato al Signore, i cosiddetti consigli evangelici, ma quanto sono rispettati dagli appartenenti al clero? Mistero della “fede”, siamo tutti miseri peccatori e perdonate l’ironia: ricordiamoci comunque che la Madre Chiesa è la sposa di Cristo e tutti noi gli apparteniamo in quanto battezzati, quindi va amata e onorata, nonostante i difetti e le colpe dei cristiani, e come recitiamo nel Credo durante la santa Messa, la Chiesa di Gesù è una, santa, cattolica e apostolica, ed è la sola Chiesa che il Signore abbia fondato, è la sola Chiesa di Cristo, l'unica che Gesù ha voluto per portare la redenzione a tutte le anime, questa verità incontrovertibile dell'origine della Chiesa è scritta nel Vangelo e nessuno con un minimo di onestà, la può smentire.

martedì 18 settembre 2012

Idolatria, equivoco tra adorazione e venerazione


L’idolatria è la tendenza ad adorare come Dio tutto quello che Dio non è, significa sostituire il Creatore con la creatura o con elementi creaturali, elevare quindi alla dignità di Signore qualcosa di terreno, di effimero o di blasfemo, quindi l’oggetto materiale che viene considerato persona divina, un’entità soggettiva superiore, assoluta: una cosa morta, può essere considerata il Vivente? No di certo. Presso alcuni popoli di cui si fa menzione nell’Antico Testamento, l’idolatria era la pratica religiosa maggiormente in uso, pratica che contrastava con l’adorazione del vero Dio, da parte del popolo di Israele: quei popoli adoravano falsi déi, sotto forma di rappresentazioni idolatriche, per intendersi delle statue che consideravano sul piano ideale in qualche modo vive, e immolavano ad esse dei sacrifici, talvolta anche sacrifici umani; Israele adorava il vero e unico Dio, il Creatore del cielo e della terra, che sovrasta ogni intendimento e rappresentazione visibile. Quei popoli idolatri in verità adoravano e sacrificavano a demòni, poiché dietro ad ogni idolo che pretende per sé l’adorazione dovuta soltanto al vero Dio, si celano gli spiriti maligni dell’inferno; ciò che differenzia l’adorazione dall’idolatria è l’oggetto di tale sentimento religioso o pseudo tale, per l’adorazione l’adorato è il Signore, per l’idolatria l’idolatrato è il demonio che si nasconde dietro un oggetto, una persona, una qualsivoglia maschera. Adorare un idolo significa adorare il maligno, prosternarsi alla sua presenza e asservirsi ad esso. Varie società religiose, comunità e sette con connotati anticattolici, che si definiscono cristiane, ma in realtà non lo sono per niente, in quanto eretiche e assertrici di errori dogmatici, dottrinali e morali, quindi in opposizione alla Verità rivelata, affermano che la venerazione del crocifisso o delle statue della Madonna sono una forma di idolatria, qualcosa di distorto che porta i fedeli ad allontanarsi dall’autentico culto di Dio, per volgersi al culto delle immagini. In realtà ad essere distorte, sono queste realtà religiose a carattere chiuso ed esclusivista, che senza il minimo buon senso e virtù di intelletto, nonché ragionevolezza, non comprendono la differenza che passa tra venerazione e adorazione, oltretutto non comprendono il valore rappresentativo delle immagini sacre, che ovviamente non sono Dio, ma che come delle splendide pagine scritte, delle icone eloquenti, ci parlano di Lui e di quelle che sono le sue qualità e le qualità di sua Madre: il crocifisso si venera, poiché nel crocifisso è rappresentato Gesù che soffre sulla Croce per amore dell’umanità e di ciascuno di noi in particolare e chi è cristiano sa che Gesù è il Figlio di Dio fatto uomo, pregare davanti al crocifisso significa entrare in comunicazione con il Signore e il suo mistero di redenzione, infatti il crocifisso è un tramite con Cristo, una rappresentazione plastica e visibile della sua persona; anche la Madonna si venera, Lei ovviamente non è Dio ma va onorata con un culto particolare, perché Madre di Cristo con tutti i dogmi a Lei attribuiti dalla Chiesa secondo verità, le sue statue e immagini sono un contatto o meglio una porta con il mondo soprannaturale, con il Cielo e dinanzi ad esse si prega con devozione. Le immagini sacre si venerano e Dio si adora in spirito e verità, come ci ha suggerito Gesù secondo la sua parola registrata nel Vangelo; ma noi conosciamo anche il volto di Dio che è il volto di Gesù, e questo volto noi possiamo rappresentarcelo con una immagine degna di venerazione, così come il volto della Madonna, perché anche Gesù e Maria sono persone umane, condividono con noi la nostra natura, loro nella perfezione e noi nell’imperfezione del peccato. Pregare davanti al crocifisso significa pregare Gesù e il Signore vuole e gradisce che lo si faccia, perché si tratta di uno splendido atto di fede e di amore a Lui; pregare davanti alla statua della Madonna, significa rivolgere personalmente a Lei la nostra parola e amarla con tutto il cuore: questi atti di devozione non sono affatto idolatria, ma sono autentico culto cristiano rivolto alle persone sacre e il Padre del Cielo li desidera, perché esprimono fede e amore.

Dal Messale del popolo di Dio, estratto n°4


Il contesto della lettura è dato dall’interpretazione tipologica dei fatti della peregrinazione nel deserto delle tribù di Israele uscite dall’Egitto (10,1-13). Queste, benché avessero sperimentato la grazia della liberazione, caddero nell’idolatria e perciò andarono incontro ad un destino di morte. Così i cristiani non possono nutrire una fiducia magica nella loro esperienza di grazia battesimale. Paolo esorta a fuggire l’idolatria, tentazione tutt’altro che lontana nell’ambiente pagano di Corinto. Nei sacrifici l’apostolo vede l’espressione di una comunione dell’uomo con la divinità e nei sacrifici pagani il segno della comunione con i demòni. Ora, dice, è impossibile fare comunione con Cristo nell’Eucaristia e partecipare alla comunione con i demòni nei pasti sacri pagani.

Dalla prima lettera di san Paolo Apostolo ai Corìnzi

Miei cari, fuggite l’idolatria. Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane. Guardate Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? Che cosa dunque intendo dire? Che la carne immolata agli idoli è qualche cosa? O che un idolo è qualche cosa? No, ma dico che i sacrifici dei pagani sono fatti a demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. O vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo forse più forti di lui?

Il problema è attuale anche oggi. Si tratta dell’identità del cristiano in una società che non lo è più. A chi si identificherà il cristiano? La celebrazione dell’Eucaristia pone il cristiano in una diretta e misteriosa “comunione” con il corpo e il sangue di Cristo (v. 16). Questa “comunione” fa si che i cristiani pur essendo “molti” formino tra di loro “un corpo solo” (v. 17). Paolo voleva dire che l’Eucaristia edifica la Chiesa, in quanto è “comunione” con Cristo e i fratelli. Per lui, non c’è dubbio. L’identità del cristiano è data dell’Eucaristia, che fa partecipare al corpo e al sangue di Cristo. Molti cristiani che pensano che la loro identità proviene dall’identificazione con i problemi sociopolitici della società attuale rimarranno forse delusi.

Pagina tratta dal sito del Comune di Milano


Il Cimitero Monumentale di Milano, la grande porta verso l’Eternità, nel silenzio evocativo della solenne arte funeraria, dove trattenere la memoria è espressione di fede e dove risiede nella quiete la grande città dei morti.

Storia

1866: un nuovo cimitero per la città di Milano

Le origini

Le origini del Monumentale risalgono al 1838 quando il municipio di Milano bandì un concorso per il progetto di un nuovo cimitero che raggruppasse in un unico luogo le sepolture distribuite in sei camposanti periferici. L’idea era di predisporre uno spazio decoroso e modernamente attrezzato per accogliere i segni funebri della memoria individuale e collettiva, considerandolo un preciso dovere nei confronti della cittadinanza. L’iniziativa tuttavia non ebbe esito concreto e fu solo con l’Unità nazionale che il municipio varò, nel 1860, tra i primi atti della nuova amministrazione, un ulteriore concorso per il cimitero; tre anni dopo il progetto dell'architetto Carlo Maciachini (1818-1899) fu definitivamente proclamato vincitore.

Il progetto

La sua proposta fu apprezzata per la particolare distribuzione planimetrica che raggruppava sul fronte le principali strutture architettoniche, disponendole come in una gran corte d'onore affacciata sulla città. Fulcro dell'insieme è il Famedio da cui si dipartono le ali porticate che lasciano trasparire il paesaggio retrostante del cimitero. Esteso per circa 180.000 mq (oggi più di 250.000), il Monumentale (realizzato con alcune varianti rispetto al concorso del 1863) si organizza in base all'incrocio ortogonale di due assi principali e numerosi assi secondari che lo percorrono in lunghezza e in larghezza. Essi creano una maglia entro cui si distinguono: le gallerie e le arcate all'ingresso, i “Riparti” distribuiti su tutta l'area, le zone rialzate ai lati, la “Necropoli” centrale a impianto ottagonale, le fasce perimetrali dette “Circondanti”, i “Giardini cinerari” sul fondo. Il cimitero è stato pensato per ospitare una grande varietà di monumenti funerari che corrisponde alla diversità del gusto, delle scelte artistiche e anche del credo religioso. Fin dalla fase di progetto il Monumentale ha infatti previsto due riparti per gli acattolici e gli israeliti, collocati, rispettivamente, a ovest e a est del fronte d’ingresso. Degno di nota è il linguaggio architettonico che abbandona i più consueti schemi neoclassici a favore di una composizione eclettica dove echi del romanico lombardo si accostano a richiami bizantini e a reminiscenze del gotico pisano, conciliando gli spunti di diversi stili e diverse epoche. La grandiosità dell’insieme, la cura per il dettaglio e l’efficacia delle soluzioni funzionali hanno reso il Monumentale un modello per l’architettura funeraria e una delle più note e apprezzate realizzazioni dell’eclettismo italiano.

L'architetto Carlo Maciachini (1818-1899)

Carlo Francesco Maciachini nasce a Induno Olona il 2 aprile 1818 da un’umile famiglia contadina. La sua prima formazione avviene in una bottega da falegname dove si distingue per l’abilità nell’intaglio del legno. Trasferitosi a Milano nel 1838, apre un laboratorio di ebanista e contemporaneamente frequenta i corsi all’Accademia di Belle Arti di Brera dove consegue il diploma che gli consente di esercitare la professione di architetto. Il primo successo risale al 1859 quando vince il concorso per la chiesa serbo orientale di San Spiridione a Trieste, realizzata nel 1869. In questa opera sono già presenti gli accenti che caratterizzeranno le prove successive: la tendenza ad armonizzare in un’espressione originale i diversi stili storici e la capacità nell’accostamento dei colori, delle tecniche e dei materiali.

Altre opere

Dopo il Monumentale, Maciachini intraprende una fortunata carriera che si protrae fino allo scorcio del secolo: in questi anni è intensamente attivo nell'architettura funeraria firmando numerosi monumenti e cappelle; progetta e realizza a Milano la chiesa di Santa Maria del Cenacolo (distrutta); si occupa del restauro di edifici religiosi orientandosi verso la reintegrazione dei loro caratteri stilistici. Tra questi le chiese milanesi di San Simpliciano, di Santa Maria del Carmine e di San Marco. Numerose altre opere sono realizzate in Lombardia, nel Veneto e nel Friuli Venezia Giulia. Muore a Varese il 10 giugno 1899; è sepolto al Monumentale, all’ingresso della Galleria AB inferiore di ponente.

Perché museo

Fin dalla sua apertura il cimitero ha rappresentato per gli artisti un’occasione straordinaria per misurarsi con un tema antico e solenne come quello funerario. Il loro impegno si è inoltre accentuato a partire dal 1895 quando, dopo l’inaugurazione del cimitero di Musocco, il recinto di Maciachini è stato destinato alle sepolture perpetue, assumendo in quella occasione la denominazione ufficiale di cimitero Monumentale. Per gli architetti il progetto di un’edicola funeraria ha costituito uno sbocco professionale di prestigio che in molti casi ha significato l’approfondimento del linguaggio stilistico, l’attenzione a proporzioni ed equilibri di veri e propri edifici in miniatura, l’utilizzo di diversi materiali e tecniche, l’esplorazione della ricca gamma di sentimenti ed emozioni connesse alla morte e alla memoria.

Gli artisti

Troviamo quindi al Monumentale architetture significative dello storicismo e del periodo tardo eclettico con opere di Carlo Maciachini, Luca Beltrami e Gaetano Moretti; notevoli prove del liberty, ben rappresentato da Giuseppe Sommaruga, Ernesto Pirovano e Ulisse Stacchini; importanti esempi dell’architettura milanese tra le due guerre, oscillante tra il Novecento e il razionalismo, con opere di Paolo Mezzanotte, Piero Portaluppi, Giò Ponti, i BBPR, Luigi Figini, Gino Pollini. La progressiva saturazione degli spazi del cimitero non ha favorito negli ultimi decenni un altrettanto significativo sviluppo dell’architettura funeraria, pur costituendo un tema costante di riflessione nella cultura del progetto contemporaneo. Per la scultura il cimitero ha rappresentato un luogo privilegiato di applicazione che oggi consente di considerarlo un vero e proprio museo all’aperto e un eccezionale campionario di orientamenti e tendenze di gusto e di stile. Dalla iniziale monumentalità di impianto classico, si passa dagli anni Settanta dell’Ottocento a nuove libertà stilistiche e temi più aperti al realismo anche in base alle esigenze di autorappresentazione dei concessionari delle sepolture. Diversi i temi iconografici: dalla porta socchiusa, varco misterioso al mondo ultraterreno, alla rappresentazione di valori laici e civili, dalle figure di dolenti in pose di cordoglio, ai ritratti di varia foggia. Una maggiore libertà formale e nella definizione dei temi si riscontra nella plastica della scapigliatura, dove le opere di Medardo Rosso sono tra gli esempi più alti, punto di avvio per scultori come Enrico Butti, Ernesto Bazzaro, Paolo Troubetzkoy. Negli anni Novanta il linguaggio simbolista che predilige figurazioni raffinate, aderenti a uno stile nuovo, più armonioso e fluido, è preludio al trionfo del liberty la cui fortuna si estenderà sino agli ultimi anni Venti con le invenzioni di Leonardo Bistolfi e di decine di epigoni. Nel periodo tra le due guerre mondiali l’arte funeraria continua ad assorbire gran parte dell’attività degli scultori milanesi, con un linguaggio plastico più essenziale, ma modulato da diverse declinazioni che comprendono sia l’espressività di Adolfo Wildt, sia la corporeità di Carlo Bonomi. Gli anni Quaranta si aprono con la nuova classicità e levigatezza formale di Arturo Martini e Lucio Fontana. Anche negli ultimi decenni del Novecento il Monumentale ha accolto le opere dei massimi scultori contemporanei, come Luciano Minguzzi, Francesco Messina, Giacomo Manzù, Floriano Bodini, Giò Pomodoro, e molti altri protagonisti del secolo appena trascorso, in un continuo rinnovarsi della tradizione dell’arte nel grande cimitero Monumentale dei milanesi.

sabato 15 settembre 2012

Monaci e combattenti, nel silenzio del deserto


Descrivere la solitudine come una condizione privilegiata sembrerebbe assurdo e tutti gli psicologi moderni sono concordi nell’affermare che la solitudine è una condizione di sofferenza, perché ogni persona ha bisogno dei suoi simili per trovare la propria realizzazione e la felicità, un buon equilibrio psichico; nei deserti del nord Africa e dell’Asia minore si diffusero nei primi secoli del cristianesimo i monaci, che abbandonando il mondo per una vita di penitenza, cercavano Dio e la perfezione evangelica: alcuni erano anacoreti, cioè monaci solitari e altri cenobiti, cioè monaci riuniti in piccole comunità cenacolo; quella scelta di vita definì l’inizio di tutto il monachesimo cristiano. I monaci anacoreti vivevano da soli, isolati dal mondo nel deserto e provvedevano al proprio sostentamento con il lavoro manuale, si ritrovavano insieme soltanto per celebrare l’Eucaristia: il loro combattimento spirituale era contro la propria natura incline al peccato, la carne con le sue passioni, contro il mondo che avevano abbandonato per abbracciare quella nuova forma di esistenza e contro il principe del mondo, cioè il demonio, quindi contro la malizia degli spiriti maligni che infestavano i deserti, il loro luogo privilegiato dove risiedere. Molti cercavano i monaci anacoreti per ascoltare la loro parola e ricevere da essi dei consigli e delle esortazioni, per essere da loro illuminati su varie questioni, soprattutto di carattere spirituale e morale, l’esercizio della carità li portava ad accogliere tutti con pazienza e sollecitudine e ad elargire l’aiuto necessario dalla loro maturità di figli di Dio; gli anacoreti vivevano in una estrema povertà e spoliazione materiale, il loro compagno prediletto era il silenzio, la loro forza principale era la preghiera incessante, lo stare sempre con il cuore alla presenza di Dio, là in quei luoghi desertici e solitari. Alcuni di quei monaci erano stati nel mondo persone importanti, persone ricche e potenti, ma per amore di Cristo lasciarono tutto per la desolazione del deserto, per la povertà materiale e la solitudine: vissero una vita longeva e raggiunsero una grande saggezza, si santificarono nel deserto praticando la perfezione delle virtù umane e cristiane, sconfissero il maligno in una lotta aspra e dura e furono degni di essere accolti alla fine del loro pellegrinaggio terreno, nel Regno di Dio, in Paradiso. Esistono delle raccolte scritte delle loro esperienze spirituali, degli apoftegmi, parola greca che sta a significare detti celebri con insegnamenti di tipo morale, una sorta di compendio delle loro vicissitudini di vita con una valenza pedagogica per il lettore, alcuni scrissero anche le loro biografie: il più grande e noto di questi monaci del deserto, fu sant’Antonio abate, un grande esempio di virtù e santità. Gli anacoreti sono lì nella storia ad insegnarci che la solitudine può diventare una grande risorsa per gli altri, anche se questa affermazione può sembrare un paradosso; nella solitudine possiamo incontrare il Signore e parlare con Lui, addirittura ascoltare la sua voce, lontani dal rumore e dal chiasso del mondo affollato e caotico; nella solitudine possiamo conoscere meglio noi stessi e gli altri, preparandoci all’incontro e al dialogo, affinché sia benevolo e costruttivo, realizzatore di conciliazione e pace. La solitudine diventa un dramma quando non è cercata e voluta, quando a imporla sono quelli che ci circondano, quando ci ritroviamo davanti a noi stessi in un vuoto spaventevole, perché abbiamo abbandonato la preghiera e con essa il Signore: la solitudine senza Dio è un baratro infernale, allora ci si affida alla stupida e superficiale compagnia dei balordi nei bagordi, con cui speriamo di riempire il vuoto esistenziale, questa è propriamente una grande tragedia giovanile dei tempi moderni, dove si è smarrito il valore del silenzio e dell’intima relazione con l’Assoluto e l’Eternità; purtroppo oggigiorno trionfa la mediocrità spirituale e il lassismo di chi si arrende subito davanti alle difficoltà di una vita autenticamente virtuosa: penitenza è una parola sconosciuta e priva di valore, ma i monaci dei tempi antichi conoscevano molto bene il suo reale significato; oggi ci si abbandona facilmente al vizio senza la consapevolezza della sua nocività per l’anima e si diserta il combattimento spirituale per una vita comoda e agiata, per l’illusione della felicità, per una felicità da belluini immersi nella fanghiglia della soddisfazione materiale. I monaci invece scelsero la via maestra che porta all’autentica felicità, ma prima di essa portarono coraggiosamente la propria croce seguendo la Croce di Gesù: prima viene la sofferenza, poi viene la gioia, prima le lacrime, poi il sorriso della beatitudine.

venerdì 14 settembre 2012

Il Calice del Sangue di Cristo


Il Santo Graal, o sangreal, cioè “sangue reale” fa parte di una epica medievale che esprime la sua espressione nella tradizionale credenza che il calice di Cristo nell’ultima Cena, fu realmente conservato come reliquia per secoli, calice che accolse in sé il Sangue del Signore e simbolo della sua Passione redentrice; il calice che Gesù usò nell’ultima Cena, quando consacrò il vino dicendo: “questo è il mio sangue”, è sicuramente un calice di uso comune, molto probabilmente un piccolo calice di pietra levigata, alcuni sostengono di onice verde, ma potrebbe anche essere di un altro materiale. La leggenda del Santo Graal si spiega nel tentativo di dare una forma tangibile al Mistero del Sangue di Cristo che ricevuto conferirebbe la vita eterna, l’immortalità: è una trasposizione figurativa e storica del mistero dell’Eucaristia, della sua mistica intesa come reale oggetto di devozione con proprietà taumaturgiche e immortalizzanti, l’Eucaristia è definita anche “farmaco d’immortalità”, ma non nel senso leggendario del Graal, un senso equivoco e terreno, ma nella prospettiva della vita eterna nel Regno dei cieli, l’anima redenta e ricolma di Grazia santificante, quindi in una prospettiva puramente soprannaturale. Gesù ha detto che chi beve il suo Sangue e mangia la sua Carne, ha la vita eterna ed Egli lo risusciterà nell’ultimo giorno: il Sangue significa vita e in Cristo il sacrificio d’amore per conferire la vita alle anime, il dono gratuito di Dio nei riguardi dei suoi figli, di tutto il genere umano; il Sangue di Dio è quella linfa che vivifica l’umanità e la libera dalla schiavitù della morte. Il Santo Graal è il calice del Signore che riassume in sé tutti i calici che accolgono il vino tramutato in Sangue, nel Sangue di Gesù per comunicare ai battezzati la vita di Grazia, l’eterna redenzione, è quel simbolo accentratore e primitivo di tutti i calici della santa Cena, un simbolo perpetuato nella concretezza di ogni celebrazione liturgica, la forma esteriore e visibile del Mistero che si manifesta e si esprime con le parole di Cristo nell’ultima Cena, ripetute in ogni Messa celebrata in tutta la storia della sua Chiesa. Il Santo Graal esprime la comunione della Chiesa con il suo Signore, è il simbolo dell’unità per eccellenza; il calice dell’ultima Cena probabilmente andò perduto e oggi non lo possiamo contemplare tra le reliquie autentiche del cristianesimo, l’epica medievale si focalizza molto sulla ricerca incessante del Graal, come missione fondamentale dei fedeli, alcuni sono concordi che a custodire l’autentico Graal furono i cavalieri Templari che lo recuperarono in Terra Santa nel corso di una Crociata: cercare il Santo Graal significava dimostrare la propria fede in Cristo e confermarla nell’adesione alla verità dei suoi Misteri fondamentali, essere quindi realmente seguace della religione rivelata di Cristo… era propriamente un atto di assoluta devozione e fedeltà al Signore Gesù, Figlio di Dio. Secondo le pratiche cultuali e la tradizione dell’Ordine dei monaci combattenti, i Templari veneravano il calice di Cristo, come fulcro di tutti i divini Misteri e segno ermetico della comunione con Dio: la venerazione del Graal era l’attestato di culto latreutico più onesto e genuino, veicolato da un oggetto concreto e storico della propria fede, il segno esterno della propria rinascita interiore, della propria conversione a Cristo.

giovedì 13 settembre 2012

La misericordia è condiscendenza e pietà operosa


Misericordia, cioè cuore verso i miseri, l’atteggiamento di un Padre nei confronti dei suoi figli, che si sono allontanati dal bene e dalla sicurezza, dalla consapevolezza che la casa del proprio Padre è il luogo migliore dove risiedere per essere beati e in pace, come nella parabola del Vangelo, quella del “padre misericordioso e del figlio prodigo”. Misericordia è perdonare il prossimo, accettando nell’umiltà i suoi sbagli senza giudicare o addirittura condannare, ma lasciando sempre aperta la possibilità che essi cambino e il loro cuore si rivolga ai miseri, quindi essi stessi diventino costruttori instancabili di misericordia e perdono: la vera pace e la riconciliazione sono possibili quando il perdono è reciproco, quando da entrambe le parti la misericordia diventa l’atteggiamento morale prevalente e il male subito ingiustamente si tramuta in volontà di bene, se invece si aderisce alla tentazione della vendetta, si lascia posto nel proprio cuore al maligno e le sue intenzioni nocive e distruttive sono evidenti dalle conseguenze di coloro che scelgono la violenza come soluzione alle controversie, anche quelle più esacerbate; per diventare ed essere costruttori di pace è necessario applicare con intelligenza la virtù della misericordia e guardare agli altri in modo da intravedere la loro umanità, uguale alla nostra, mettendo da parte il cinismo e i cattivi sentimenti, come la considerazione che chi ci è di fronte sia qualcosa di diverso da noi, invece le persone che ci circondano, anche le più lontane, sono proprio uguali a noi e degne del medesimo rispetto, della medesima stima. Senza misericordia la società umana diventa il posto peggiore in cui vivere, dove vale esclusivamente la regola che a vincere sono soltanto i più forti e i deboli devono soccombere, una società dove tutti diventano homo homini lupus, cioè uomo lupo all’uomo, dove tutti sono nemici di tutti, dove chi mangia gli altri e calpesta il diritto applica il principio della massima intelligenza sociale, fare il proprio interesse e personale tornaconto, anche a danno degli altri; una società come una giungla, senza regole e senza misericordia, va inevitabilmente incontro alla tragedia della guerra, al disordine incontrollato, è la società di peccato come nelle antiche città di Sodoma e Gomorra, distrutte dalla giustizia dell’Altissimo. Dio è misericordioso e quello della vita terrena è il tempo della misericordia, tempo divenuto tale soprattutto dopo la Passione e la morte in Croce del Figlio di Dio, il Risorto che elargisce la sua misericordia a tutti i lontani e peccatori, perché li vuole salvare tutti, perché è volontà del Signore portare tutte le anime in Cielo: se non si vuole passare per la porta della misericordia, si dovrà necessariamente passare per quella della giustizia, dove il male commesso avrà un peso tanto grande da trascinarci all’inferno, senza più alcuna speranza. Con la misura con il quale uno è misericordioso, troverà altrettanta misericordia presso Dio, se avrà negato la sua misericordia al proprio prossimo, il Signore lo giudicherà con maggiore severità, attraverso un giudizio di dura condanna: chi non perdona agli altri i loro errori, i loro peccati, le loro mancanze, non può essere perdonato da Dio o meglio non può pretendere da Dio il perdono e la riconciliazione, ma va inevitabilmente incontro al tremendo Giudizio, dove oramai il tempo della misericordia offerto per la conversione appartiene al passato e purtroppo è stato disatteso, forse anche con arroganza e superficialità, con meschino disprezzo dell’amore. La condiscendenza e la pietà operosa, che si attiva per il bene altrui, sono il cuore della misericordia, condiscendere significa portare il proprio sguardo che si trova in alto, in una posizione di privilegio, verso chi si trova in basso, in una condizione di bisogno, di necessità d’aiuto: è l’atteggiamento tipico di Gesù che ci rivela il cuore misericordioso del Padre nei confronti di ciascuno di noi, suoi figlioletti amati; tutte le pagine del Vangelo sono permeate da questo agire benevolo e misericordioso di Gesù verso le persone che andava incontrando, nel cammino della sua predicazione. La misericordia e la compassione sono il massimo attributo di Dio, la voce principale scritta nei tratti salienti della sua carta d’identità: ognuno di noi deve prendere come esempio Gesù e imitarlo nella sua misericordia, per ricevere misericordia e perdono presso il Padre eterno, nostro Creatore.

mercoledì 12 settembre 2012

Dal Messale del popolo di Dio, estratto n°3


Viene enunciato un principio generale: chi agisce come colui che egli condanna, sarà parimenti condannato. Donde la colpevolezza dei Giudei e di coloro che ipocritamente presumono di essere nel giusto. La loro posizione di privilegio non solo non diminuisce la loro responsabilità, ma sarà fonte di una condanna più severa da parte di Dio giudice, poiché il Signore renderà a ciascuno secondo le sue opere. Ciò che conta è l’esecuzione della volontà di Dio senza abusare della sua pazienza e longanimità, senza diventare degli approfittatori empi della sua infinita bontà. Ognuno raccoglierà nel giorno del giudizio ciò che ha seminato nella vita di quaggiù; la vita eterna per i buoni oppure l’eterna dannazione per i cattivi.

Dalla lettera di san Paolo Apostolo ai Romani

Sei inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità.

Spesso montiamo una pseudo revisione di vita. Ci impanchiamo a giudici, prendendo i criteri da noi stessi per formarci un giudizio su altri. Invece l’unico criterio valido è il giudizio di Dio, anzitutto sul nostro operato. Il senso di responsabilità personale è un indice del livello di maturazione dell’individuo. L’autentico adulto davanti a Dio è colui che non giudica mai le persone e si presenta invece con umiltà al giudizio del Signore. Se è autentica la nostra revisione di vita, arriva alla conclusione, cioè al momento dell’agire per il bene nella carità. Già sant’Agostino ricordava che non sono le divisioni o le esclusività che ci fanno cristiani, ma i criteri delle nostre azioni quotidiane, improntate sulla scrupolosa osservanza della Legge di Dio. Nel Vangelo il verbo prediletto di Gesù è fare.

martedì 11 settembre 2012

Culto per i defunti e halloween

C’è una matrice genetica che accomuna tutta la stirpe umana, ma esiste anche una matrice psichica, che un ricercatore eminente come Jung ha definito con l’espressione “inconscio collettivo”: questo substrato della mente, fonderebbe l’umanità in un unico grande ente metapsicologico e richiamerebbe a ciascuno le proprietà nascoste di tutti gli altri individui vissuti antecedentemente a noi e innestati come fertile humus nella nostra natura profonda, inconscia. Molte culture arcaiche hanno una profonda venerazione nei confronti dei morti, di quelli che chiamano propriamente con il termine “antenati”, credono negli spiriti dei defunti e in una loro sopravvivenza dopo la morte corporale, fisica; nel paganesimo il mondo era popolato da innumerevoli spiriti che presiedevano a varie funzioni, buoni e cattivi, che entravano in contatto con i vivi e in una relazione dinamica con essi diventavano apportatori di benedizioni o di maledizioni, queste credenze influivano sull’andamento della vita delle persone in quelle determinate società antiche. Con l’avvento dell’era cristiana il culto per i defunti divenne per così dire più maturo e consapevole, coerente con la fede tramandataci dagli Apostoli di Cristo e alcune tradizioni pagane si tradussero in festività religiose cristiane, divennero l’espressione della nuova fede a cui i popoli antichi si convertirono, convinti dalla predicazione e dalle opere degli evangelizzatori. Noi celebriamo la solennità di tutti i Santi il primo di novembre e la commemorazione di tutti i fedeli defunti il due di novembre, si ricordano le persone che abbiamo amato e che non sono più insieme a noi, ma anche qui in Italia purtroppo è arrivata l’assurda festa carnevalesca di halloween, una autentica pantomima in maschera con evidenti tratti diabolici in cui si esprime il senso della paura per quello che non si può comprendere, di quella che nei tempi antichi presso il popolo dei celti, era una ricorrenza per garantirsi la simpatia degli spiriti cattivi e un po’ dispotici ed essere da loro lasciati senza danno, attraverso un patto di reciproca collaborazione: si lasciava la stagione dei vivi, quella calda e solare, ricca di approvvigionamenti alimentari con l’agricoltura e la caccia, per entrare nella stagione dei morti, quella fredda e invernale, dove occorreva l’assistenza degli spiriti con i loro favori, per attraversare il rigore e le ristrettezze del duro inverno nordico. Halloween vorrebbe sostituire oggi con il suo ambito neopagano, il culto dei Santi e dei defunti, quindi l’autentica considerazione di fede cristiana nella realtà dell’aldilà oltre la morte e della risurrezione nella nuova vita in Paradiso, quella che viene definita la nascita al Cielo – dies natalis – di tutti i battezzati che defunti – compiuta la loro funzione nel progetto di Dio – hanno lasciato con l’anima separata dal corpo questo breve passaggio sulla terra: halloween non è una festa del tutto malvagia, ma occorre interpretarla semplicemente come una banale manifestazione di puerile gioco, condiviso nell’immaturità di chi è convinto che l’enigma della morte si possa esorcizzare, tramutando la paura dell’ignoto in una forma di carnevale, dove la maschera diventa il volto inconscio della morte appunto e del diavolo, che ci ha condotti alla morte; il costume, il travestimento sono l’espressione della necessità di sentire il mistero del male tenebroso come qualcosa di tangibile, che si può toccare, per non averne più nessuna paura, per sentirsi al sicuro da esso; la classica zucca arancione che si intaglia con i connotati di un volto rappresenta l’anima da offrire agli spiriti per essere lasciati incolumi al loro passaggio, ha la stessa caratteristica di un amuleto in ambito superstizioso. I credenti non dovrebbero lasciarsi prendere da queste suggestioni della tradizione pagana e da una sorta di rivisitazione neopagana in chiave folcloristica: chi crede in Cristo, crede nella vita eterna, crede che la morte è stata sconfitta dalla Risurrezione e che Dio ha portato i trofei della luce, le anime, nel suo Regno di beatitudine; il credente celebra i misteri della sua fede e non si abbandona alle mode del presente, non si lascia secolarizzare dai costumi di una società progressista che accantona le tradizioni, nemmeno da quelli approvati e propagandati dal consumismo, da una mentalità laicista.

domenica 9 settembre 2012

Dal Messale del popolo di Dio, estratto n°2


La chiave di lettura della seguente parabola è data dal versetto 13: “Vegliate, perché non sapete né il giorno né l’ora”. Letta nella comunità (nostra e di san Matteo), la parabola delle dieci vergini è una allegoria delle nozze di Cristo con la sua Chiesa. A questa appartengono buoni e cattivi (parabola della zizzania), saggi e stolti (versetto 8): tutti insieme vanno incontro al Signore, ma gli uni nella fedele vigilanza (versetto 4), gli altri nell’infedeltà (versetto 3).

Dal Vangelo secondo san Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: “Il Regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, Signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”.

Gesù descrive la beatitudine eterna come una festa di nozze in cui lo sposo è Cristo. Ma la parabola porta l’accento sulle insensate che trovano la porta chiusa, perché non sono giunte in tempo. La Parola che Gesù dirige a queste vergini è una delle più terribili di tutta la Sacra Scrittura: “Non vi conosco”. Si tratta della separazione totale, se si pensa che “conoscere” nella Sacra Scrittura implica un elemento affettivo. L’essere “respinti” avviene per una mancanza di “fede vigilante”. E’ terribile pensare che sovente la facciata è salva (erano vergini anch’esse), ma dentro l’amore è finito; e con esso la speranza. Si continua per abitudine, con stanchezza, per quieto vivere o per puntiglio, ma si è perduto il senso dell’ invito a nozze. Manca nell’intimo l’attesa vigilante e operosa (avere l’olio) del gioioso incontro con Cristo, preparato con attenzione.

giovedì 6 settembre 2012

La guerra è un cavaliere senza rimorso


Nel mondo ci sono ancora molte guerre in atto causate da i più biechi interessi umani o semplicemente dall’odio verso i propri simili, a patire le conseguenze peggiori di queste guerre sono i più deboli e i poveri, soprattutto persone innocenti e inermi: quando i responsabili di tanto sangue e di tanta sofferenza moriranno, non potranno fuggire dal giudizio tremendo del Signore, che li condannerà all’eterna dannazione, poiché nessuna lacrima versata dai figli di Dio sarà lasciata cadere invano e coloro che hanno provocato tanto male, pagheranno per i lori crimini a prezzo della loro vile anima di malvagi. Dio permette il peccato ma non lo approva, alla fine tutto il male commesso dagli uomini che è stato registrato a loro insaputa, avrà delle serie conseguenze per quei miserabili responsabili che lo hanno consapevolmente provocato e nessuno di costoro potrà dirsi al sicuro dall’ira del Signore degli eserciti, che retribuirà agli spietati quanto hanno seminato nella vita e quanto si meritano per aver disprezzato i loro fratelli e le loro sorelle più in necessità di attenzione e protezione, di aiuto; gli stolti non possiedono la virtù del santo timore di Dio e sono sprezzanti di qualsiasi possibile castigo possa venire dall’Alto, perché non credono e al contempo accusano ingiustamente il Signore di non fare nulla per fermare la violenza e l’ingiustizia: ma come si può pensare in maniera savia, se si pretende di essere giudici di Dio? Loro non conoscono per colpevole ignoranza i misteri di Dio, ma quando arriverà la loro ora, quella che Dio stesso nella sua prescienza ha fissato, rimarranno sconcertati e confusi per ciò che si abbatterà su di essi, senza che ne avessero la minima precognizione. Non è vero che Dio non si occupa delle vicende umane, Egli interviene anche per mezzo di suoi tramiti o lo fa talvolta direttamente, il Signore ha cura dei suoi figli, anche se questa azione benevola di Dio non è apparente, ma piuttosto nascosta e misteriosa, ed è vero quel proverbio che dice: “ Fa più rumore un albero che cade, che una foresta che cresce ”, in quanto il male è appariscente e il mondo lo risalta con le sue menzogne, mentre il bene è operoso e nascosto: non si comprendono quelle persone che a partire dall’esperienza del male nel mondo, negano l’esistenza di Dio o lo descrivono distante e indifferente, ma perché non ragionano iniziando le loro considerazioni da ciò che nel mondo, nella creazione è bello e positivo? Perché non considerano l’esistenza di persone buone che sono propriamente i figli di quel Dio che è Padre buono, la cui peculiarità è l’amore e la compassione, che Gesù ci manifesta con il suo Vangelo? Certi individui sono senza la luce interiore della coscienza, vivono nell’accecamento morale e spirituale, brancolano nel buio e non si accorgono che il bene è più forte del male, che comunque vadano le vicende umane nella nostra storia, il bene e la carità, quindi la giustizia autentica alla fine trionferà sull’ingiustizia delle creature empie, che per propria colpa sono diventate malvage e hanno disprezzato la vita e la dignità del loro prossimo: chi segue il demonio ed è asservito ad esso, finirà inevitabilmente nella pattumiera, perché il male retribuisce il reprobo con altro male ed è per sua natura intrinseca ritorsivo, è sì lesivo per gli altri, ma torna sempre addosso al suo autore, dimostrando che chi lo commette è uno stupido, anche se presume di essere intelligente e lungimirante, nel suo folle gioco contro il destino… che non potrà che essere di morte, quella dell’anima.