Abitare
nell’altro è il metodo essenziale per conoscere e aiutare chi si trova in
difficoltà con sé stesso, significa percepire con la propria sensibilità gli
stati emotivi e il pensiero che caratterizzano la sfera psicologica di un’altra
persona; abitare sé stessi ci fa smarrire la capacità di relazionarci
positivamente e di socializzare con coloro che sono il nostro conforto e la
misura per renderci consapevoli di essere veramente vivi, la vita umana infatti
consiste nel vivere insieme e nell’intessere relazioni, nel comunicare e nel
comunicarsi; abitare l’altro è muoversi nel suo mondo interiore per scoprire
che quello che ci caratterizza anche ci accomuna tutti, rendendoci veramente
simili: una persona è diversa dalle altre, è unica nel suo genere e contemporaneamente
è uguale al prossimo nella sua struttura psichica e nelle modalità con cui
sente sé stessa in funzione del mondo e delle altre creature. Gli animali non
sono persone anche se dotati di psichismo a vari gradi, per essere una persona
occorre essere liberi di fare delle scelte che possono determinarci in un senso
oppure in un altro, che possono farci diventare come noi decidiamo di volere:
quello che siamo è una consecuzione di scelte a cui aderiamo con piena
avvertenza e deliberato consenso, è il grado di consapevolezza che realizza la
persona come tale, ciascuno è responsabile delle proprie azioni e di tutto ciò
che procede dal suo cuore, nel bene o nel male. La mentalità contemporanea ha
adottato l’opinione come misura dell’agire umano nei confronti del prossimo e
della realtà, questa mentalità si chiama relativismo etico, significa che ogni
singolo individuo interpreta da sé l’agire morale e si comporta di conseguenza,
questa concezione distorta non è altro che la morte del senso del peccato e del
senso di responsabilità: oggi quasi nessuno si pente e chiede perdono, al
contrario tutti cercano la giustificazione che deresponsabilizza il proprio
agire. La sensibilità della coscienza rende una persona spiritualmente viva,
questa condizione interiore si esprime soprattutto nel dispiacere e nelle
lacrime e di conseguenza nel desiderio di emendarsi, nella volontà ferma e risoluta
di cambiare registro alla propria vita e di tagliare i ponti con il passato, così
da non consistere più in un peso che ci blocca e ci schiavizza condizionandoci,
ma diventando una elaborazione positiva che ci proietta nell’avvenire come
persone rinnovate e ristabilite in una matrice di esame, confronto e
superamento. La matrice di una persona non è un codice granitico che non si può
scalfire, ma bensì una pietra malleabile che può essere lavorata, questo accade
quando si rientra in sé stessi e ci si conosce alla luce della verità. Chi si
interessa alla vita altrui può vantarsi di essere costruito su una buona
matrice, l’interesse per gli altri è una vera e propria energia vitale; senza
interesse per gli altri cadiamo nell’apatia, ci chiudiamo in noi stessi e
smarriamo la nostra capacità di bene: vivere per gli altri dà veramente senso e
valore alle nostre vite, non vivere per sé stessi; l’altruismo è per le persone
sane, l’egocentrismo purtroppo è per quelle malaticce. Se ci si persuade dell’insensatezza
dell’esistenza forse è perché non abbiamo ancora fatto la scoperta del nostro prossimo,
quindi la nostra visione della vita è falsa. La società ha un fondamento solido
quando coloro che vi appartengono lavorano per la collettività e per l’individuo,
il declino avviene quando i suoi ingranaggi ruotano l’uno contro l’altro in
senso inverso e l’ordine costituito si rompe, la macchina che sembrava perfetta
smette di funzionare a beneficio del suo stesso ideale, ciò significa che l’individualismo
esasperato è il peggior nemico di qualsiasi ordine sociale. La medicina è
vivere per gli altri, fare per gli altri: sembra una strategia controproducente
perché occorre rinunciare un po’ a sé stessi, è invece la strategia davvero razionale
per perseguire anche il proprio bene. Non siamo isole, siamo parti di un
arcipelago; non siamo stanze vuote, siamo edifici con numerose porte che danno
su una moltitudine di stanze; non siamo candele nel buio, siamo stelle di
grandi costellazioni. Dimenticarsi del prossimo è smarrire la parte buona di
sé, quella che più di ogni altra ci nobilita come creature umane: questo potenziale
ci rende autenticamente umani.
✠ Sub tuum praesídium confúgimus,
sancta Dei Génetrix;
nostras deprecatiónes ne despícias in necessitátibus;
sed a perículis cunctis líbera nos semper,
Virgo gloriósa et benedícta.
sancta Dei Génetrix;
nostras deprecatiónes ne despícias in necessitátibus;
sed a perículis cunctis líbera nos semper,
Virgo gloriósa et benedícta.
sabato 21 gennaio 2017
lunedì 16 gennaio 2017
Il linguaggio solidale e Babele
Quando
rispetti una persona perché debole e vulnerabile, hai compiuto un atto di culto
al Signore, ma se con arroganza, prepotenza e superbia calpesti la vita e la
dignità di una persona debole e vulnerabile compi l’opera del diavolo, il quale
è nemico dell’innocenza e della compassione; talvolta la parola è un balsamo
lenitivo per l’anima, la parola può guarire la psiche, e non si possono parlare
buone parole se prima non ci si mette all’ascolto dell’altro e non si comprende
il suo mondo interiore. Quando ascolto una persona mi faccio attento affinché
io sia considerato un amico, qualcuno con cui aprirsi e di cui fidarsi,
ascoltare benevolmente ed esprimere il linguaggio giusto con i contenuti
appropriati è l’arte propria solamente delle creature umane, chi sa ascoltare
sa anche parlare. Prima di ascoltare è necessario interessarsi all’altro, avere
l’altro a cuore, ascoltare è un atto di amore e chi vi dedica il suo tempo
manifesta una spiccata attitudine alla pratica delle virtù; pregare prima di
ascoltare è un agire propedeutico che tende alla purezza della mente e a mettere
in sintonia il cuore con lo Spirito Santo, a informare la persona facendola
portatrice dei doni dello Spirito poiché essi sono alla radice di ogni discorso
razionale e costruttivo, che nobilita l’orante e beneficia l’ascoltatore; il
linguaggio è anche bellezza, è lo specchio in cui si riflette il divino.
Meditiamo sul mito della torre di Babele, è stata la pretesa dell’uomo di
rapinare Dio del suo status a diversificare le lingue e a disperdere sulla
terra molti popoli ciascuno con una lingua diversa che rese il linguaggio degli
uni incomprensibile agli altri: attraverso la storia le lingue si sono evolute,
sono cambiate, alcune sono morte e ne sono nate delle altre per distinguere i popoli
e fondare le nazioni. Nessuno parla la medesima lingua, siamo divisi e tendiamo
alla pacificazione, alla concordia e alla comunione, questi dovrebbero essere i
desideri di coloro che hanno la coscienza retta e ricercano il bene; l’umanità
è divisa e fomite di tremendi conflitti, perché? forse qualcosa non è
esattamente sano e ordinato nella nostra natura? se ci fosse una sola lingua
per un unico popolo? che tedio. La bellezza della nostra natura è insita nelle
innumerevoli diversità, sono convinto che sia qualcosa di conforme alla volontà
del Creatore, la pluralità non è una deficienza ma bensì una straordinaria
ricchezza, non ci divide escludendoci a vicenda ma consente di apprezzarci con intelligenza e in profondità, mettendo in pratica la carità
fraterna. La parola ha una forza mistica, comprende e trasforma ciò che è
creato, è la dimostrazione empirica dell’esistenza e della dimensione
metafisica dell’anima umana; la parola che ci relaziona crea il mondo, e con la
parola l’uomo ha il potere di renderlo bello o purtroppo di distruggerlo; la
parola e la nostra civiltà sono la prova che lo spirito è più forte della
materia, che lo spirito supera la materia. Comprendendo questa fondamentale
verità sulla parola si comprende quanto sia preziosa la persona umana, quanto
grande sia il suo valore: il Salmo dice che l’uomo è stato fatto poco meno
degli angeli. Chi parla buone parole le trae dal tesoro del suo cuore buono, ed
è sulla strada giusta per entrare nel Regno dei cieli, quel Regno che Gesù ha
promesso agli umili, ai mansueti, ai pacifici e ai puri di cuore.
venerdì 6 gennaio 2017
Il passaggio dalle tenebre alla luce
Nel cuore
di Kai abitavano due draghi dagli straordinari poteri, uno bianco e uno nero;
quello bianco era nato dal suo amore per una fanciulla di nome Leixia, un amore
vissuto facendo sublimare il desiderio e nella coesistenza della tenerezza, del
rispetto e del sentimento, un amore puro fatto di reciproco dono di sé, un
amore equilibrato e maturo; il drago nero era nato dalla paura che con il
passare del tempo divenne rabbia, la rabbia con il vile abbandono dell’anima si
tramutò presto in odio; i due draghi non guerreggiavano ma bensì scrutandosi
cercavano la via per comprendersi e per studiare una strategia che rendesse l’altro
vulnerabile, una strategia non per prevalere sull’altro ma piuttosto per
controllarlo e asservirlo ai dettami di una volontà indagatrice del nascosto e
scrutatrice del lontano. Kai sentiva dentro di sé la viltà e il coraggio che si
scontravano per cambiare la sua attitudine a sentire il mondo esteriore, fatto
di innumerevoli conflitti senza soluzione, un mondo troppo chiassoso e
nebuloso; uno dei due draghi invece portava la luce della conoscenza e del
progresso, era il drago bianco che assieme a Kai conduceva i suoi pensieri a
luoghi di sconfinata bellezza e pace; il drago nero odiava Kai e lo guardava
sempre con odio tetro, quel drago era impassibile a tutto e possedeva una
pazienza senza fine, sapeva attendere il suo momento. Venne il momento quando il
giovane apprese della morte prematura della sua amata Leixia, morì
repentinamente a causa di una malattia ignota, morì soffrendo e lui lo seppe.
Kai guardò ancora una volta dentro di sé e quel drago bianco cominciò
inesorabilmente a svanire, svanì intriso dalle lacrime amare che bagnarono il
suo voltò, svanì nell’inconsolabile desiderio di abbracciarla per l’ultima
volta, di abbracciare Leixia a cui aveva donato un frammento del suo cuore, la
parte migliore della sua anima. Poi guardò verso il drago nero che sogghignava
e udì una voce roca che gli diceva: “Perdi
te stesso e sii per sempre libero”. La disperazione e il nulla lo gettarono
tra quelle fauci, e il suo cuore diviso fu tenebra all’infinito; non aveva mai
provato la morte e quel drago nero gli disse: “Io sono la morte”. Kai quel giorno comprese quanto è tortuosa la
strada che conduce da abisso in abisso, non vide più la luce, al di là del bene
e del male, e si allontanò dall’amore del Signore e non volle più ascoltare la
voce del Signore. Kai non provava più ombra di emozione, voleva soltanto fare
il male e volgendosi oltre la prigione entro cui si era chiuso, vedeva il
prossimo come uno strumento per esercitare la sua malvagità. La mente di Kai
era contorta, il suo cuore secco come il deserto, il suo sguardo come lame d’acciaio:
non poteva risorgere perché non voleva. Forse quell’amore oramai dimenticato
poteva scuoterlo dalla paralisi del suo cuore? Con la vita era finito anche l’amore,
senza amore non può sussistere la vita. Dal mondo celeste Leixia pregava e le
sue preghiere intrise di dolore per l’amato Kai, andarono a ferire come lance acuminate
il Cuore benignissimo dell’Eterno: quel drago nero si estinse nel comprendere
che l’amore ha senso soltanto quando è rivolto al prossimo indistintamente,
quando non è esclusivo e quindi chiuso da muri alti e freddi che ci separano da
molti cuori che meritano il nostro affetto e la nostra dedizione. La
risurrezione di Kai fece risvegliare da un sonno millenario un secondo drago
bianco, un drago forte e immortale, un drago che si risveglia dove Dio è amato
e ha il volto delle persone che incontriamo sul nostro cammino, un drago
luminoso perché specchio che riflette la luce del Paradiso. Kai imparò ad amare
e da quel momento in poi fu davvero libero dalla schiavitù del maligno, Kai
imparò la compassione per le altre creature, Kai imparò il sacrificio e a
considerare gli altri fratelli e sorelle, Kai diventò veramente un uomo e la
sua stella continuò a rifulgere senza che i fantasmi del passato l’avvolgessero
nell’oblio: il suo tesoro fu presso Dio e nessun drago nero poté portarglielo
via, in quel meraviglioso giardino riabbracciò Leixia.
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