Descrivere la solitudine come
una condizione privilegiata sembrerebbe assurdo e tutti gli psicologi moderni
sono concordi nell’affermare che la solitudine è una condizione di sofferenza,
perché ogni persona ha bisogno dei suoi simili per trovare la propria realizzazione
e la felicità, un buon equilibrio psichico; nei deserti del nord Africa e dell’Asia
minore si diffusero nei primi secoli del cristianesimo i monaci, che
abbandonando il mondo per una vita di penitenza, cercavano Dio e la perfezione
evangelica: alcuni erano anacoreti, cioè monaci solitari e altri cenobiti, cioè
monaci riuniti in piccole comunità cenacolo; quella scelta di vita definì l’inizio
di tutto il monachesimo cristiano. I monaci anacoreti vivevano da soli, isolati
dal mondo nel deserto e provvedevano al proprio sostentamento con il lavoro
manuale, si ritrovavano insieme soltanto per celebrare l’Eucaristia: il loro
combattimento spirituale era contro la propria natura incline al peccato, la
carne con le sue passioni, contro il mondo che avevano abbandonato per
abbracciare quella nuova forma di esistenza e contro il principe del mondo,
cioè il demonio, quindi contro la malizia degli spiriti maligni che infestavano
i deserti, il loro luogo privilegiato dove risiedere. Molti cercavano i monaci
anacoreti per ascoltare la loro parola e ricevere da essi dei consigli e delle
esortazioni, per essere da loro illuminati su varie questioni, soprattutto di
carattere spirituale e morale, l’esercizio della carità li portava ad accogliere
tutti con pazienza e sollecitudine e ad elargire l’aiuto necessario dalla loro
maturità di figli di Dio; gli anacoreti vivevano in una estrema povertà e
spoliazione materiale, il loro compagno prediletto era il silenzio, la loro
forza principale era la preghiera incessante, lo stare sempre con il cuore alla
presenza di Dio, là in quei luoghi desertici e solitari. Alcuni di quei monaci
erano stati nel mondo persone importanti, persone ricche e potenti, ma per amore
di Cristo lasciarono tutto per la desolazione del deserto, per la povertà
materiale e la solitudine: vissero una vita longeva e raggiunsero una grande
saggezza, si santificarono nel deserto praticando la perfezione delle virtù
umane e cristiane, sconfissero il maligno in una lotta aspra e dura e furono
degni di essere accolti alla fine del loro pellegrinaggio terreno, nel Regno di Dio, in
Paradiso. Esistono delle raccolte scritte delle loro esperienze spirituali, degli
apoftegmi, parola greca che sta a significare detti celebri con insegnamenti di tipo morale, una sorta di compendio
delle loro vicissitudini di vita con una valenza pedagogica per il lettore,
alcuni scrissero anche le loro biografie: il più grande e noto di questi monaci
del deserto, fu sant’Antonio abate, un grande esempio di virtù e santità. Gli
anacoreti sono lì nella storia ad insegnarci che la solitudine può diventare
una grande risorsa per gli altri, anche se questa affermazione può sembrare un
paradosso; nella solitudine possiamo incontrare il Signore e parlare con Lui,
addirittura ascoltare la sua voce, lontani dal rumore e dal chiasso del mondo
affollato e caotico; nella solitudine possiamo conoscere meglio noi stessi e
gli altri, preparandoci all’incontro e al dialogo, affinché sia benevolo e
costruttivo, realizzatore di conciliazione e pace. La solitudine diventa un
dramma quando non è cercata e voluta, quando a imporla sono quelli che ci
circondano, quando ci ritroviamo davanti a noi stessi in un vuoto spaventevole,
perché abbiamo abbandonato la preghiera e con essa il Signore: la solitudine
senza Dio è un baratro infernale, allora ci si affida alla stupida e
superficiale compagnia dei balordi nei bagordi, con cui speriamo di riempire il
vuoto esistenziale, questa è propriamente una grande tragedia giovanile dei
tempi moderni, dove si è smarrito il valore del silenzio e dell’intima
relazione con l’Assoluto e l’Eternità; purtroppo oggigiorno trionfa la
mediocrità spirituale e il lassismo di chi si arrende subito davanti alle
difficoltà di una vita autenticamente virtuosa: penitenza è una parola sconosciuta
e priva di valore, ma i monaci dei tempi antichi conoscevano molto bene il suo
reale significato; oggi ci si abbandona facilmente al vizio senza la consapevolezza
della sua nocività per l’anima e si diserta il combattimento spirituale per una
vita comoda e agiata, per l’illusione della felicità, per una felicità da belluini immersi nella fanghiglia della soddisfazione materiale. I monaci invece
scelsero la via maestra che porta all’autentica felicità, ma prima di essa
portarono coraggiosamente la propria croce seguendo la Croce di Gesù: prima
viene la sofferenza, poi viene la gioia, prima le lacrime, poi il sorriso della
beatitudine.
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