Secondo la mentalità del
periodo di Gesù e del popolo ebraico il prossimo per il pio israelita, era
soltanto colui che apparteneva al giudaismo, si aveva il dovere di beneficare e
di aiutare solamente i propri compatrioti e non coloro che appartenevano ad altre
genti, cioè ai gentili, secondo un termine in uso all’epoca, o greci, secondo
la definizione degli stranieri che san Paolo Apostolo usa nelle sue Lettere; in
un colloquio con un israelita gli viene domandato quale sia il più grande
comandamento della Legge e Lui afferma che si tratta della Legge dell’amore,
della carità perfetta, verso Dio e verso il prossimo, l’interlocutore afferma
che la risposta di Gesù è secondo verità e ne fa un grande apprezzamento, ma
domanda perplesso e confuso al Signore, chi sia il suo prossimo: a quel punto
del dialogo il Signore risponde con la parabola del buon samaritano; i
samaritani erano stranieri per i giudei, con loro non si intrattenevano
rapporti cordiali, anche a causa delle divergenze cultuali e religiose, erano
ritenuti estranei al popolo eletto dall’opinione comune della gente; Gesù con
questa parabola vuole affermare che ogni persona che soffre e che incontriamo
sul nostro cammino, nella nostra vita, è il prossimo da amare con il cuore
stesso della carità, la centralità stessa insita nella virtù dell’amore, che è
la compassione, il prossimo da amare è la persona che ha bisogno di aiuto senza
eccezioni, poiché qualsiasi eccezione è un impedimento all’esercizio dell’amore
e della compassione; l’amore quindi è universale, deve abbracciare tutti senza
escludere nessuno, altrimenti non è vero amore! La compassione è il nucleo
centrale dell’amore, la sua espressione più alta: compassione significa,
soffrire con, insieme, sentirsi nell’altro, condividere le sofferenze altrui
con un atto di profonda empatia, essere nell’altro e avere la capacità di
intervenire per lenire il dolore, piangere con coloro che piangono e gioire
quando il prossimo gioisce; compassione significa essenzialmente comunione di
cuori. Ama il prossimo tuo come te stesso, dice il Signore, questo è il secondo
e più grande dei comandamenti di Dio: chi ama gli altri ama sé stesso, non c’è
amore per gli altri senza un amore verso la propria persona, occorre amare sé
stessi per amare anche gli altri, poiché volere il bene proprio è insito nella
volontà di bene nei riguardi di coloro che ci circondano, nei riguardi delle
altre creature; nell’amore agli altri non ci si dimentica di sé stessi, non è
una forma di estraniazione impersonale, dove l’io perde di importanza, anzi è
il solo ed autentico modo per valorizzare l’io, per dare un significato reale
alla propria esistenza: pensare agli altri porta come atto intrinseco il
pensare a sé stessi, a fare il proprio bene, anche se descritto così può
sembrare un paradosso, ma è invece una verità di fatto. L’abnegazione, il
dimenticare sé stessi per il bene altrui, è il passo intermedio che porta al
sacrificio, all’atto di amore finale nella propria vita; l’abnegazione è
saggezza di vita, è la sapienza del Vangelo, stoltezza e follia secondo i
canoni del mondo.
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