Sub tuum praesídium confúgimus,
sancta Dei Génetrix;

nostras deprecatiónes ne despícias in necessitátibus;
sed a perículis cunctis líbera nos semper,
Virgo gloriósa et benedícta.

giovedì 22 novembre 2012

La pena capitale o sentenza di morte

Negli ordinamenti giudiziari di molti Stati del mondo è contemplata come condanna più severa per i crimini di maggiore entità, la pena capitale o pena di morte; la pena di morte implica per lo Stato un diritto e cioè quello di disporre in caso di grave reato della vita di un suo cittadino, con la possibilità effettiva di togliergli la vita, di ucciderlo. Ma questo diritto per lo Stato è giusto o è sbagliato? Non esiste nulla di alternativo a questo genere di soluzione drammatica? La sentenza di morte per una persona, significa sostanzialmente il fallimento dello Stato di diritto, significa che la società a cui quell’individuo appartiene ha fallito nei suoi impegni di civilizzazione e di umanità, significa decretare la disponibilità assoluta della vita dei cittadini nei confronti dell’ordinamento statale, cosa che può accadere soltanto nei regimi totalitari e antidemocratici: la vita dei cittadini a disposizione dei dettami costitutivi di una nazione sovrana. Non serve a niente uccidere persone che si sono macchiate di crimini efferati, di delitti odiosi, anche nel caso estremo che non si possano recuperare alla vita civile, è sufficiente quindi togliere loro la libertà di agire a danno degli altri cittadini e della società: assassinare i criminali non è giusto, è semplicemente un atto di vendetta che non ripara nulla del danno perpetrato alle vittime, significa abbassarsi allo stesso livello dei malvagi e diventare praticamente come loro, quindi uno Stato criminale con tanto di boia muniti di strumenti per infliggere la morte al solo scopo della vendetta; la giustizia implica una riparazione per il danno inferto alle vittime, ma anche la possibilità per il reo di emendarsi quando ciò sia veramente possibile: l’emenda come si definiva nel passato, o emendazione, significa il recupero di una persona dalla sua condizione di colpa, significa un cambiamento radicale di mentalità e attitudini, dalla condizione di malvagità a quella di colpa espiata, di bontà acquisita e realizzata, ciò implica l’espiazione attraverso una sofferenza, ma nella sofferenza anche una dinamica di rinnovamento, la nascita di una persona nuova dalle ceneri di quella vecchia, malvagia. Ci sono persone che non intendono cambiare e se viste garantite nel reiterare le proprie colpe, non se lo fanno chiedere due volte prima di cadere nuovamente nei crimini del loro passato: noi dobbiamo dimostrare di essere migliori di loro, di essere autenticamente giusti e umani; per questi individui recidivi è sufficiente la reclusione o pene alternative che ne garantiscano l’innocuità sociale, rispettando la loro dignità di esseri umani, quindi anche il loro diritto alla vita, cosa che questi calpestarono più volte disprezzando il loro prossimo… indubbiamente questo comportamento giuridico e legislativo per uno Stato civile e democratico, è l’espressione di una profonda maturità etica, di un progresso autentico in campo umanitario e sociale, dell’affermarsi della logica evangelica del perdono sulla logica della vendetta, dell’occhio per occhio e dente per dente: è la via difficile e maestra della verità, su quella facile e comoda del compromesso e della menzogna. Gesù è morto in croce, condannato da un tribunale civile di una sperduta provincia dell’impero romano di quell’epoca, è stato condannato a morte per opera della giustizia umana di uno Stato, Lui che era innocente assieme a due malfattori, sarebbe meglio affermare che il Signore è morto in croce per opera dell’ingiustizia di uno Stato, uno tra i più evoluti per quell’epoca; ma la sua risposta a questa ingiustizia fu il silenzio e la mansuetudine, la totale remissività da ogni tentativo di difendersi dalle calunnie e dall’arroganza dei suoi accusatori. Gesù è morto in croce perché ad Egli è stata applicata la legge dei romani sulla pena capitale, è morto crocifisso per l’ingiustizia e la barbarie di uno Stato che si reputava faro di tutte le civiltà moderne, ma che in realtà era uno Stato criminale: se oggi il Signore dovesse subire un processo penale analogo, noi lo condanneremmo alla medesima pena? Quale sarebbe la sentenza del tribunale? La risposta a questa domanda è impressa e scritta a chiare lettere, nello sguardo di ogni condannato a morte dell’era contemporanea, uomini e donne, di ogni popolo, lingua e nazione, colpevole e anche soprattutto innocente: diciamo di no alla violenza e sosteniamo l’ideale di una giustizia giusta, a misura di un’autentica morale umana contro la vendetta, a favore della possibilità dell’emendazione… forse proprio come nelle parole del Profeta, un giorno anche il leone potrà abitare con l’agnello e l’infante giocare sulla tana dell’aspide.

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