Negli ordinamenti giudiziari di
molti Stati del mondo è contemplata come condanna più severa per i crimini di
maggiore entità, la pena capitale o pena di morte; la pena di morte implica per
lo Stato un diritto e cioè quello di disporre in caso di grave reato della vita
di un suo cittadino, con la possibilità effettiva di togliergli la vita, di
ucciderlo. Ma questo diritto per lo Stato è giusto o è sbagliato? Non esiste
nulla di alternativo a questo genere di soluzione drammatica? La sentenza di
morte per una persona, significa sostanzialmente il fallimento dello Stato di
diritto, significa che la società a cui quell’individuo appartiene ha fallito
nei suoi impegni di civilizzazione e di umanità, significa decretare la
disponibilità assoluta della vita dei cittadini nei confronti dell’ordinamento
statale, cosa che può accadere soltanto nei regimi totalitari e antidemocratici:
la vita dei cittadini a disposizione dei dettami costitutivi di una nazione
sovrana. Non serve a niente uccidere persone che si sono macchiate di crimini
efferati, di delitti odiosi, anche nel caso estremo che non si possano
recuperare alla vita civile, è sufficiente quindi togliere loro la libertà di
agire a danno degli altri cittadini e della società: assassinare i criminali
non è giusto, è semplicemente un atto di vendetta che non ripara nulla del
danno perpetrato alle vittime, significa abbassarsi allo stesso livello dei
malvagi e diventare praticamente come loro, quindi uno Stato criminale con
tanto di boia muniti di strumenti per infliggere la morte al solo scopo della
vendetta; la giustizia implica una riparazione per il danno inferto alle
vittime, ma anche la possibilità per il reo di emendarsi quando ciò sia
veramente possibile: l’emenda come si definiva nel passato, o emendazione, significa il recupero di una persona dalla
sua condizione di colpa, significa un cambiamento radicale di mentalità e
attitudini, dalla condizione di malvagità a quella di colpa espiata, di bontà
acquisita e realizzata, ciò implica l’espiazione attraverso una sofferenza, ma
nella sofferenza anche una dinamica di rinnovamento, la nascita di una persona
nuova dalle ceneri di quella vecchia, malvagia. Ci sono persone che non
intendono cambiare e se viste garantite nel reiterare le proprie colpe, non se
lo fanno chiedere due volte prima di cadere nuovamente nei crimini del loro
passato: noi dobbiamo dimostrare di essere migliori di loro, di essere autenticamente
giusti e umani; per questi individui recidivi è sufficiente la reclusione o
pene alternative che ne garantiscano l’innocuità sociale, rispettando la loro
dignità di esseri umani, quindi anche il loro diritto alla vita, cosa che questi
calpestarono più volte disprezzando il loro prossimo… indubbiamente questo comportamento
giuridico e legislativo per uno Stato civile e democratico, è l’espressione di
una profonda maturità etica, di un progresso autentico in campo umanitario e sociale,
dell’affermarsi della logica evangelica del perdono sulla logica della
vendetta, dell’occhio per occhio e dente per dente: è la via difficile e
maestra della verità, su quella facile e comoda del compromesso e della
menzogna. Gesù è morto in croce, condannato da un tribunale civile di una
sperduta provincia dell’impero romano di quell’epoca, è stato condannato a
morte per opera della giustizia umana di uno Stato, Lui che era innocente
assieme a due malfattori, sarebbe meglio affermare che il Signore è morto in
croce per opera dell’ingiustizia di uno Stato, uno tra i più evoluti per quell’epoca;
ma la sua risposta a questa ingiustizia fu il silenzio e la mansuetudine, la
totale remissività da ogni tentativo di difendersi dalle calunnie e dall’arroganza
dei suoi accusatori. Gesù è morto in croce perché ad Egli è stata applicata la
legge dei romani sulla pena capitale, è morto crocifisso per l’ingiustizia e la
barbarie di uno Stato che si reputava faro di tutte le civiltà moderne, ma che
in realtà era uno Stato criminale: se oggi il Signore dovesse subire un
processo penale analogo, noi lo condanneremmo alla medesima pena? Quale sarebbe
la sentenza del tribunale? La risposta a questa domanda è impressa e scritta a chiare
lettere, nello sguardo di ogni condannato a morte dell’era contemporanea,
uomini e donne, di ogni popolo, lingua e nazione, colpevole e anche soprattutto
innocente: diciamo di no alla violenza e sosteniamo l’ideale di una giustizia
giusta, a misura di un’autentica morale umana contro la vendetta, a favore
della possibilità dell’emendazione… forse proprio come nelle parole del Profeta,
un giorno anche il leone potrà abitare con l’agnello e l’infante giocare sulla
tana dell’aspide.
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