ALCUNE POSSESSIONI DIABOLICHE INCOMINCIANO CON DELLE APPARIZIONI, TALVOLTA PUÒ TRATTARSI DI UN RAGNO CHE ENTRA NEL CORPO DELLA VITTIMA
La prima volta lo scorsi sulla parete della stanza, sospeso tra due ombre come una sutura nera che unisse due mondi. Non si muoveva per camminare; pareva misurare il tempo e lo spazio con una disinvoltura geometrica che rifiutava la nostra fragile logica. La luce si incurvava prima di toccarlo, come se obbedisse a un antico divieto da cui non osava trasgredire. Quando la sua figura ruotò, e la rotazione fu quasi impercettibile, non fu uno sguardo quello che mi rivolse ma una deliberazione antica e irremovibile, come un giudizio misurato da una decifrazione universale. Avvenne senza fretta e con la calma crudele degli accadimenti inevitabili. Il ragno discese la parete con una grazia che non era di questo mondo, attraversando l’aria come un solido che piegasse il vuoto senza romperlo, e si arrestò davanti al mio petto. Ebbi l’impressione — o la certezza — che il mio torace si aprisse in un silenzio esatto, un intervallo tra battito e respiro dove nulla ha ancora preso nome; il demone mi sfiorò la pelle e, come un pensiero che si insinua, svanì dentro. Non ci fu strazio; vi fu soltanto un mutamento d’ordine, come se i mobili della mia coscienza fossero stati spostati nella notte da mani invisibili. Le mattine si fecero matematiche, centrate in una perfezione che pareva calcolata da una mente estranea. La chiave girava al primo contatto, il coltello incideva il suo solco senza esitazione, i passi trovavano con naturalezza il ritmo giusto sul pavimento. Ma ogni perfezione esige un tributo che nessun mortale immagina: ogni errore mancato riscuoteva da me parole e gesti, pezzi d’identità che si staccavano come corteccia. Nel vetro della finestra si rifletteva un volto disciplinato; dietro quel vetro, un altro volto, freddo e cupo, che non era il mio. Non m’inchinava con frasi, ma con scelte; ogni minima decisione veniva ordinata da quel principio causale che non avevo scelto. Alzare gli occhi o abbassarli, indugiare o avanzare, stringere la mano o lasciarla cadere — tutto divenne il rispondere a una direzione interna che non riconoscevo come mia. Quando provai a invocare l'eternale origine con preghiere, le parole si irrigidirono in corde tese: non si spezzarono, ma smisero d’appartenere a me. Il ragno-demone, annidato al cuore, intesseva le mie volontà con pazienza maniacale. Mi aveva promesso ordine e ordine mi diede; i giorni s’incastrarono come ingranaggi di un congegno troppo preciso per appartenere alla natura umana. In cambio richiedeva l’abdicazione alla sbavatura, al dubbio, a quella lieve disobbedienza che chiamavo libertà. Camminavo più dritta, sorridevo con una chiarezza innaturale, e nessuno intuiva la mano invisibile che reggeva il filo dal centro del mio petto. La perfezione, scoprii, ha una voce che si pronuncia senza parole e che reclama silenzio. Non era un esorcismo la mia rinuncia, ma il varco attraverso il quale fui riperduta in me stessa. Cercai, tra quei gesti sincronici, il millimetro d’imperfezione ancora concesso; vi infilai un pensiero minuscolo e tenace, come un granello che si nasconde sotto la lingua. Quando tutto funzionava troppo bene, lo lasciai scricchiolare: un passo falso, un bicchiere appoggiato male, un sì che tardava. Il demone restò, ma non ovunque: abitava il centro del petto e, pur reggendomi in una forma elegante, lasciava scoperto un angolo dove la sua tela era troppo corta. A volte lo sentivo salire lungo la spina dorsale come su una scala di fili; altre volte scendere nelle mani per decidere la forza della stretta. Il ragno compare ancora sulla parete, agli orli dei riflessi, e io ora so dove volgere lo sguardo. Nel punto esatto in cui la perfezione inciampa d’un respiro, nel cuore da cui tutto è svanito e tuttavia governa, rimane, anche posseduta, la possibilità di nominarmi ancora.
(Think Deeper Copilot AI con un racconto breve nello stile di Howard P. Lovecraft)
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